Il trattamento delle carni di piccola selvaggina

Il trattamento delle carni di piccola selvaggina: selvaggina impiattata
© Matteo Brogi

Il corretto trattamento delle carni di piccola selvaggina è fondamentale per portare in tavola tutte le qualità e i sapori migliori.

Il trattamento delle carni di piccola selvaggina non è affare scontato: per operare bene servono particolari competenze e una solida consapevolezza dell’igiene. Il primo aspetto da tenere in considerazione è la temperatura dell’ambiente. Rispetto agli ungulati, la piccola selvaggina impiega molto meno tempo per raggiungere l’equilibro con l’esterno. E questo è un problema in di giornate miti o calde.

Punto fermo da rispettare: il selvatico abbattuto deve essere assolutamente protetto dalla temperatura eccessiva, che accelera la proliferazione batterica a partire dalle viscere e in particolare dagli intestini. Proprio per impedire che si attivino i processi di deterioramento e poi di putrefazione delle carni, subito dopo l’abbattimento è necessario praticare la starnatura dei volatili e l’eviscerazione dei piccoli mammiferi, così da facilitare il raffreddamento della carcassa. L’eviscerazione, soprattutto quella della lepre, consente di mettere i tessuti in contatto con l’esterno. Si elimina così la massa organica che fino a pochi attimi prima aveva una temperatura elevata, la stessa dell’animale in vita.

Il selvatico appena abbattuto e ancora caldo che non deve essere immediatamente posto nel gilet o nella giacca; conviene aspettare un pochino per farlo raffreddare all’aria. Non va mai messo in sacchetti di plastica che non consentono un’adeguata traspirazione, ritardano il raffreddamento e dunque favoriscono la contaminazione batterica.

Occhio alla temperatura

Temperature esterne troppo alte e carenti condizioni di raffreddamento possono portare a un’eccessiva attività enzimatica che provoca dannose alterazioni delle carni. Il fenomeno, conosciuto come maturazione soffocata, si manifesta attraverso una colorazione rosso-rame delle carni, che assumono poi uno sgradevole odore dolciastro e diventano molli e marcescenti. Di contro, un raffreddamento troppo rapido può avere conseguenze sulla qualità delle carni; questa è però una condizione che si presenta raramente. Se si impedisce la prima fase di maturazione della carne con un raffreddamento troppo rapido della muscolatura a una temperatura molto bassa, si provoca una forte contrazione dei muscoli. Ne conseguono il danneggiamento delle cellule muscolari e l’indurimento della carne, al quale non si può più rimediare. Se si appende la selvaggina all’aperto e la carne gela anche solo leggermente, la qualità ne risentirà comunque moltissimo.

Nell’esercizio della caccia vagante durante il periodo dell’apertura o della preapertura, quando la temperatura esterna è ancora elevata, è difficile che il cacciatore possa raffreddare repentinamente la selvaggina appena abbattuta. Situazione ben diversa per la caccia da appostamento. In tal caso sarebbe opportuno dotarsi di un frigorifero portatile o di una borsa termica ove riporre i selvatici abbattuti, magari avvolti in una busta di carta. Se poi a questa modalità di conservazione si associa l’eviscerazione o la starnatura dell’animale, tanto di guadagnato.

Tra le quattro e le dodici ore dopo la morte compare il rigor mortis che non è altro che una temporanea rigidità della muscolatura, dovuta all’azione di enzimi in grado di sciogliere i legami degli elementi contrattili della muscolatura. Tale rigidità cadaverica si allenta nell’arco delle successive ventiquattro-quarantotto ore e dà inizio al processo della frollatura, che richiede alcuni giorni a temperatura ridotta e che può essere fermato solo dal surgelamento.

Il trattamento delle carni di piccola selvaggina: in tavola dopo pochi giorni

Quando si torna a casa dopo la battuta di caccia, di deve innanzitutto chiedersi quando verrà consumata la selvaggina abbattuta. In passato l’obiettivo era far frollare la selvaggina da piuma sino al limite della putrefazione, nell’intento di rendere la carne il più tenera possibile. In effetti la frollatura si rende necessaria quando i volatili, soprattutto quelli di maggiori dimensioni, non sono più giovani. Un’allodola o una cesena appena cacciate non avranno bisogno di frollatura sotto piuma, mentre un fagiano o una beccaccia sicuramente sì.

Se l’obiettivo è cucinare i selvatici dopo pochi giorni, la temperatura del frigorifero per tre-cinque giorni è l’ideale. In questo modo si bloccano i processi degenerativi e si consente una corretta frollatura. Durante questo processo la muscolatura si trasforma in carne in ambiente acido e sotto l’azione di taluni enzimi. Durante il periodo fresco la frollatura può avvenire anche appendendo i volatili per le zampe, a testa in giù: in questo modo le fasce muscolari possano lentamente cedere in rigidità e distendersi, consentendo al sangue di affluire verso la testa. In ogni caso vanno mantenute le penne e le piume intatte (il pelo nel caso della lepre). Se non adeguatamente protetti, i grassi presenti nel sottocute tendono a irrancidire più velocemente e a rendere la carne meno buona.

Il trattamento delle carni di piccola selvaggina: conservazione più lunga

Anche quando non si pensa di consumare la carne nell’immediato ed è pertanto necessaria la conservazione in freezer, è bene procedere alla preventiva eviscerazione e mantenere penne, piume o pelo. La conservazione in freezer non corrisponde al surgelamento. Questa è infatti una pratica tipicamente industriale che porta la temperatura dei corpi a -18°C in maniera molto veloce, riducendo al minimo la dimensione dei cristalli di ghiaccio e non danneggiando la struttura dei tessuti. A casa si praticato il congelamento che porta le temperature dei corpi a -10/-14°C in alcune ore. In questo caso si formano cristalli più grandi che lacerano e danneggiano i tessuti. Si aumenta così la tenerezza delle carni, soprattutto nel caso di animali vecchi.

La selvaggina dovrebbe essere conservata in freezer per un periodo non superiore ai tre mesi. Bisogna mantenere le piume e il pelo anche se comunque alle basse temperature la fase di irrancidimento dei grassi risulta arrestata. Risulta opportuno utilizzare buste in plastica ove riporre pochi animali (due-quattro nel caso di piccoli uccelli). Più la massa formata dalle carcasse è grande, più tempo impiega per congelare. Ciò potrebbe consentire l’attivazione di qualche processo degradativo. Fegato, cuore e ventriglio delle specie ornitiche andranno mondati e gelosamente conservati ben chiusi in sacchetti ermetici, affinché mantengano tutte le proprie qualità in attesa di essere utilizzati in cucina.

Fuori dal freezer

Una volta che la selvaggina verrà tolta dal freezer per la cottura, andrà lasciata scongelare lentamente in frigorifero (si mantiene sempre il piumaggio o il pelo) in modo tale da evitare un’esagerata escursione termica che potrebbe compromettere la qualità delle carni. La permanenza in frigorifero durante la fase di scongelamento fungerà anche da frollatura – se non totale, almeno parziale; potrà essere completata appendendo per le zampe i volatili, una volta scongelati, in un sito molto fresco.

Prima di mettere in padella la selvaggina, naturalmente dopo averla spiumata o spellata, sarebbe opportuno rimuovere il più possibile i pallini conficcati negli strati superficiali dei tessuti o tra le penne. Sicuramente non sarebbero apprezzati dai commensali.

L’articolo completo su Caccia Magazine aprile 2021, in edicola dal 20 marzo.

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