Le false credenze sul recupero degli ungulati feriti

Le false credenze sul recupero degli ungulati feriti: cane da recupero cerca vicino a specchio d'acqua
© Łukasz Dzierżanowski

Il sangue, gli odori, gli inseguimenti, gli abbai, la lunga, i morsi alla spoglia, le specie da evitare: sono sette le false credenze sul recupero degli ungulati feriti: conviene dissiparle e aver chiaro che cosa ci sia davvero dietro.

È una disciplina che desta grande interesse, ma tanti ne sanno ancora poco: pertanto le false credenze sul recupero degli ungulati feriti sono particolarmente diffuse. Il vuoto viene infatti riempito da una serie di luoghi comuni, veri e propri miti, particolarmente diffusi tra i cacciatori. Alcuni possono contenere un grano di verità, ma di solito non hanno niente a che fare con quella che di fatto è un’arte visitata da professionisti.

Il sangue nell’addestramento

I cani da traccia lavorano su una traccia di sangue. Lo pensano in molti. Ma non è proprio così. L’istinto li induce a seguire un animale ferito, e questo desiderio dovrebbe essere rafforzato e consolidato. Le gocce di sangue a terra sono una doppia prova: l’animale è stato davvero ferito, la strada è giusta. Ma la loro assenza non vuol dire niente: né sulla strada, né sul ferimento.

Quando l’animale versa sangue come un setaccio, può non esserci bisogno del cane. I problemi cominciano quando il cacciatore non può seguire la traccia da sé e si accompagna a un cane non abbastanza bravo (non ha talento, non è stato addestrato; oppure non ha talento e non è stato addestrato) a seguire una traccia difficile.

Una volta mi è capitato di cercare un cervo maschio colpito allo stomaco. Trovai le prime gocce di sangue – e proprio gocce, niente di più – dopo cinque chilometri abbondanti. Andrzej, il collega che mi aveva chiamato per dargli una mano, aveva fallito anche se aveva fatto il massimo. Aveva chiesto l’aiuto del cognato e avevano preso il cane del vicino, ma non era servito a granché. Perché avevano bisogno di un cane in grado di far parlare ogni indizio, non solo il sangue. Ed è difficile che un cane ci riesca solo grazie al suo talento: servono esperienza, allenamento, supporto umano.

Ecco perché il sangue non dovrebbe essere usato nell’addestramento. Ci sono molti altri odori che permettono al cane di riconoscere la specie giusta. Perciò quando si creano le tracce d’addestramento è sufficiente usare gli zoccoli, rimossi da poco o da poco scongelati. Non perdete tempo a raccogliere, conservare e spargere il sangue. La traccia lasciata dagli zoccoli è molto più ricca di quanto si possa pensare e contiene informazioni sufficienti.

Vento di morte

C’è una questione misteriosa per i profani e controversa fra i tracciatori. Un selvatico ferito a morte lascia dietro di sé un odore particolare. Lo chiamiamo vento di morte. Un cane può riconoscerlo, così come un cacciatore può riconoscere il sangue dei polmoni o un frammento osseo o altri segni lasciati a terra da un animale ferito. Un cane esperto coglie questa sfumatura nell’aria e, sentendola, rafforza le proprie motivazioni. Fin qui tutto sereno.

Ma alcuni, per ragioni incomprensibili, cadono di nuovo in una fallacia logica e aprono di nuovo il paniere false credenze sul recupero degli ungulati feriti. Se il cane non sente odore di morte, dicono, non ha senso cercare. Ma è un errore enorme. Lo è per due ragioni. Consideriamo innanzitutto che cosa sia un colpo fatale. La risposta è semplice: è un colpo che uccide. E non importa se uccida subito o dopo qualche giorno. In entrambi i casi l’animale muore in conseguenza dello sparo. E in entrambi i casi il cacciatore ha il dovere di cercarlo e, per quanto possibile, di accorciare le sue sofferenze.

Mettiamo da parte l’ovvio: colpo al cuore, polmoni, fegato, altri organi vitali. Ma il vento di morte soffia anche dietro un cinghiale ferito alla mascella e destinato a morire di fame dopo una tortura straziante? Ho saputo di un tracciatore che impiegò tre settimane per trovare un cervo colpito al collo da due proiettili. Come sia riuscito a vivere così a lungo nonostante la ferita colossale è un mistero, ma ora non ci interessa. Ci interessa capire quale odore lasciasse dietro di sé.

Quando scappava, alle sue spalle tirava o no un vento di morte? E se non tirava, era comunque una traccia da seguire? Qualche anno fa nel giro di qualche giorno mi capitò di imbattermi in due cervi feriti alla zampa anteriore: uno in basso, vicino al polso, l’altro proprio sotto lo sterno. A occhio uno sarebbe riuscito a liberarsi del proiettile, l’altro no. Ma il mio cane trovò e fermò entrambi dopo un lungo inseguimento.

E dunque bisogna fidarsi del cane. Senza fiducia non c’è collaborazione possibile. Questo non significa che il cane non commetta errori e non abbia bisogno del nostro aiuto. Può essere stanco, scoraggiato, distratto. Come tutti, ha diritto a una giornata negativa. Ma sono tutti fattori soggettivi, che nessuna relazione hanno con lo sparo. A volte basta concedere al cane un po’ di riposo, farlo raffreddare e riportarlo sulla traccia incoraggiandolo a riprendere. A volte bisogna sostituirlo con un altro cane. Ma bisogna sempre fidarsi.

Ovviamente ho omesso il caso in cui la presunta assenza del vento di morte serve solo a mascherare pigrizia, scarsa volontà, malessere fisico o semplice indolenza. Cane e tracciatore devono prendere una decisione sulla base della loro esperienza. Lavoro ostinato, perseveranza davanti ai fallimenti e chilometri e chilometri sotto le suole possono portarci davanti a un selvatico impossibile da recuperare; davanti un selvatico che non perdeva sangue, scappato lontano; davanti a un selvatico ferito a un arto, allo stomaco, alla mascella. Chi si nasconde dietro il vento di morte, dietro la sua assenza, è improbabile che ottenga un successo spettacolare.

Le false credenze sul recupero degli ungulati feriti: l’inseguimento

Un cane da traccia non dovrebbe mai seguire un animale sano. È un errore impiegarlo per la braccata. Ma che bisogna fare col suo desiderio d’inseguire un cervo o un cinghiale? Va soppresso? Potrebbe sembrare di sì: dopotutto se sul cane si è investito molto si vuole che si comporti in un modo ben preciso. Ma la risposta non è così ovvia.

Il desiderio e la volontà d’inseguire sono due caratteristiche fondamentali per un segugio. Una traccia si trasforma in una corsa più spesso di quanto si pensi. Chi non usa il cane di solito trova l’animale morto – ammesso che lo trovi. Con il cane è tutto diverso. Quando si avvicina al selvatico ferito, il cane lo fa capire. E spesso fa capire che vuol essere sciolto prima ancora che noi vediamo o sentiamo qualcosa. Quando si accorge che la traccia si riscalda, vuole farsi togliere il collare. E poi accelera, e insegue la bestia a tutta velocità. A volte si ferma dopo qualche dozzina o centinaia di metri. Ma può accadere che la fuga si srotoli per molti chilometri: e non basta una condizione fisica eccellente, per arrivare in fondo il cane deve anche essere tenace.

E rieccoci all’inizio. Il desiderio d’inseguire animali sani è cruciale nello sviluppo di cani giovani. Pertanto bisogna usare la testa. Jan Kierznowski, fino a qualche anno fa presidente dello Scent Hound Club polacco, ha detto più volte: «Conosco tanti modi per frenare la passione di un cane. Non ne conosco nessuno per riattizzarla». Ho avuto il piacere di confrontarmi con Reinhard Scherr, presidente del German Bavarian Mountain Dog Club. Ha la medesima opinione.

L’abbaio

Questione ulteriore, e quarto mito: sarei milionario se avessi ricevuto un penny per ogni volta che qualcuno mi ha chiesto se Docent «abbai su una bestia morta». È un modo volgare di esprimersi, ma non voglio concentrarmi su questo. L’idea che un buon cane dovrebbe abbaiare quando arriva su un selvatico morto è estremamente comune. Quest’idea che conti soprattutto saper proclamare si è diffusa in proporzioni gigantesche: alcuni allevatori mi raccontano che tanti, quando vengono a prendere un cane, scelgono quello più rumoroso anche se altre caratteristiche indicano che sono i meno promettenti della nidiata.

Si pensa che, lasciato sciolto, un buon cane trovi da solo l’animale e poi chiami il cacciatore. Sarebbe un bell’affare. Ma la realtà dice tutt’altro. Il cacciatore – è chiaro che qui sarebbe ingiusto chiamarlo tracciatore o guida – non riesce a controllare le mosse del cane. Che dunque farà quel che vorrà: un po’ cercherà, un po’ correrà – anzi, forse più di un po’. A meno che non sia un genio, non si sobbarcherà un lavoro che potrebbe portare a una traccia estenuante. E se anche lo facesse, come riuscirebbe a farsi sentire dal cacciatore che aspetta dall’altra parte della foresta?

Le false credenze sul recupero degli ungulati feriti: la lunga

Il gps è un dispositivo eccezionale. Ci permette di registrare tutte le attività del cane, dalla direzione alla velocità; e se è integrato con il gsm, possiamo addirittura chiamarlo per sentire che ci dice. Chi ha bisogno della lunga, così arcaica, quando non è più possibile perderlo? Dettaglio: il cane è guidato dalla lunga. Non importa che spesso cammini davanti: la lunga gli trasmette una serie di informazioni, modula il ritmo, interrompe la cerca quando la traccia incrocia altre tracce, consente di tornare indietro e correggersi in caso di errori.

La lunga non è un vincolo quanto piuttosto un legame, una connessione tra il cane e il tracciatore. Spesso ho visto Docent tornare da me dopo un inseguimento andato male: caso tipico, l’animale che gli era schizzato davanti non era ferito. Per riprendere la traccia, gli ho rimesso il collare. Da giovane ogni segugio è stato addestrato con la lunga, esulta quando la vede: vuol dire che c’è del lavoro da fare, e al mondo non esiste niente di meglio.

Mordere la spoglia

Altro problema: nelle prove su traccia gli annunci – cane rilasciato che torna dal conduttore per portarlo sul selvatico, abbaio a fermo – sono premiati, anche se sono di scarsa utilità nel mondo reale. Invece i giudici penalizzano molto chi morde la spoglia. Ora, è chiaro che non sia una virtù. Ma è davvero un problema? Io penso che lo sia solo per lo stile. Ma nondimeno il grande pubblico, sesto mito, lo condanna. Abituato alle regole delle prove, mi ci ero accodato anch’io. Finché un paio d’anni fa Joachim Decker, famosissimo giudice e tracciatore tedesco, mi chiarì le idee. Il miglior modo per motivare un segugio a lavorare è ricompensarlo con un po’ di carne dalla carcassa, mi disse.

Era chiaramente una provocazione in cui io caddi subito. «Non prenderà l’abitudine a mangiarla?» gli chiesi. Si aspettava una risposta simile. Replicò con una domanda. «Il tuo cane lavora libero o alla lunga?». «Alla lunga» risposi. «E ci sono delle occasioni in cui lavora libero?». «Solo durante l’inseguimento». «E allora» concluse sorridendo «non avrà modo di banchettare sulla carcassa, non ti pare?». Se si esclude l’inseguimento, un cane ben condotto si muove sciolto solo quando il terreno in cui traccia – colza, rovo di more – è troppo difficile o pericoloso per la lunga. E se anche il cane trovasse il selvatico e ne mordesse un pezzetto, non sarebbe una tragedia. Sarebbe una tragedia se l’intera carcassa andasse sprecata perché il cane non è stato abbastanza buono da trovarla.

Una specie ostica

E poi c’è il mio mito preferito, forse il più incistato di tutti perfino tra i conduttori: lasciar andare un segugio giovane dietro un capriolo ferito gli toglie la passione per le altre specie e lo porta a inseguire caprioli sani. Conseguenza pessima: tanti rifiutano di partecipare a un’operazione di ricerca quando di mezzo c’è un capriolo.

Questo mito si smonta se si fa leva su tre cardini. Numero uno: non esiste che il cane sia lasciato andare. Il cane lavora alla lunga, controllato dal conduttore. Numero due: con l’addestramento il cane impara a riconoscere l’odore specifico del selvatico da ricercare. Ciò significa che acquista l’abilità di seguire una traccia specifica e di distinguerla dalle altre. Il cane da traccia segue un selvatico perché è ferito, non perché di una specie interessante. Numero tre: compito del conduttore è guidare il cane, ossia sviluppare la sua passione e allo stesso tempo insegnargli a rispettare gli animali sani che incontra mentre traccia. Non esiste specie privilegiata. Alcune tracce non lo riguardano: il cane deve ignorarle non perché siano meno appetibili, ma perché portano a un animale sano.

C’è comunque un altro aspetto da tener presente quando si lavora con un cane giovane. Il capriolo è una specie molto difficile da seguire. Si muove rapido, lascia una pista esile. In più, le condizioni meteo che inquadrano la stagione di caccia sono spesso sfavorevoli. Ecco, semmai sono questi i motivi che possono spingerci ad andar piano con l’impiego di un cane giovane sul capriolo: ci sta che la traccia finisca male. E, specie all’inizio, arrivare in fondo è decisivo. In ogni caso nessuno ha il diritto di negarsi a un cacciatore che chiede aiuto; nemmeno se pensa che inseguire un capriolo faccia male a un cane giovane.

Ci sono ancora tanti miti che circolano tra i nostri fratelli cacciatori. Ho cercato di segnalare i principali, e non per criticare ma per mostrare quanto spesso il senso comune non trovi riscontro nella realtà. D’altra parte spesso i cacciatori si affidano agli stereotipi perché faticano a trovare informazioni affidabili: i libri disponibili sono pochi, e quei pochi sono perlopiù generici e utili soprattutto per fare bella figura nelle prove. Chi vuole saperne di più ha un solo metodo: contattare tracciatori esperti che lavorano con cani abilitati. Saranno di sicuro felici di farsi accompagnare da chi vuole imparare la loro arte.

(traduzione a cura di Samuele Tofani)

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