La storia del cinghiale maremmano

La storia del cinghiale maremmano
© Viviana Bertocchi

La storia del cinghiale maremmano merita di essere raccontata, soprattutto perché conduce a una conclusione rilevante. È infatti accertato che, sebbene abbiano risentito dell’afflusso di geni alloctoni e del rilascio di ibridi, conserva una quota della diversità genetica originaria. Ciò rende necessaria la loro conservazione, evitando ulteriori improvvidi ripopolamenti.

Per conoscere la storia del cinghiale maremmano (Sus scrofa majori) bisogna risalire alla fine degli anni Ottanta, quando si riteneva che le popolazioni italiane di cinghiale fossero state snaturate dall’incrocio con i cinghiali provenienti da Paesi dell’Europa orientale (Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia), appartenenti alla specie Sus scrofa scrofa, e addirittura con i maiali. Agli inizi del successivo decennio si riteneva inoltre che il solo nucleo di cinghiale maremmano rimasto puro fosse quello presente all’interno della tenuta presidenziale di Castelporziano, nel Lazio. Tutte queste affermazioni si fondavano sulla base di semplici analisi morfologiche; a quell’epoca non erano ancora disponibili indagini di carattere biomolecolare, ossia genetiche.

Nella porzione centro-meridionale della Toscana esiste una vasta area boscosa che guarda verso il mare Tirreno (è compresa a est nella parte orientale della provincia di Siena, a sud in quella settentrionale di Grosseto, a nord in quella meridionale di Pisa e a ovest in quella orientale di Livorno, nota come Colline Metallifere) dove il cinghiale maremmano è ragionevole pensare che non si sia mai estinto. Qui è anche nata la caccia al cinghiale nella sua forma tradizionale: la braccata. La moderna braccata è infatti a pieno titolo la diretta discendente della cosiddetta cacciarella maremmana.

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento gli sparuti gruppi di cacciatori che abitavano nei piccoli borghi medioevali disseminati tra le Colline Metallifere iniziarono a cacciare il cinghiale maremmano. Questi gruppetti di cacciatori iniziarono la loro attività impiegando i pochi cani da pagliaio che avevano a diposizione. Ogni anno il carniere era così modesto che l’abbattimento di un cinghiale rappresentava un vero e proprio avvenimento; talmente eccezionale da essere salutato con il grido di «Viva Maria» e da una scarica di fucilate sparate per aria dai cacciatori all’ingresso del Paese.

La storia del cinghiale maremmano: il conflitto con i maiali

Ma perché i cinghiali maremmani erano così pochi? Purtroppo non abbiamo notizie per l’intera zona delle Colline Metallifere. Può però aiutarci la relazione tecnica redatta nel 1950 dal professor Giorgio Dal Pra, all’epoca capo dell’ispettorato provinciale dell’Agricoltura, nonché presidente del comitato provinciale della caccia di Siena, sull’allevamento suino allora praticato in questa provincia. L’allevamento era del tipo semibrado: i suini venivano cioè trattenuti nei castri durante le ore calde del giorno e durante la notte; per il resto della giornata erano mandati al pascolo nei boschi di querce e lecci. La quasi totalità delle scrofe pascolanti apparteneva alla razza cinta senese, caratterizzata da una forte rusticità, resistenza alle malattie e capacità pascolativa. Nel 1949, in provincia di Siena le scrofe in produzione erano 18.945 (189.450 i lattonzoli); si calcolava che fossero all’incirca 140.000 i maiali che pascolavano ogni anno nei boschi della provincia.

È dunque del tutto ragionevole pensare che anche le Colline Metallifere fossero pascolate da un consistente numero di maiali. E, di conseguenza, non è difficile comprendere come i maiali rappresentassero dei temibili competitori ecologici per i cinghiali, costretti in queste condizioni a vivere nei luoghi meno accessibili e quindi poco idonei per i maiali. I fattori ambientali dunque contribuivano in misura determinante a mantenere a livelli minimi il numero e la produttività delle popolazioni di cinghiale maremmano.

La naturale presenza dei cinghiali nelle Colline Metallifere trova una conferma in alcuni verbali delle riunioni tenute dal comitato provinciale della caccia di Siena negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Nel verbale della riunione del 16 giugno 1951, infatti, il comitato delibera di «vietare la caccia al cinghiale al fine di proteggere i pochi esemplari rimasti sul territorio provinciale»; di fatto nei Comuni senesi delle Colline Metallifere.

La storia del cinghiale maremmano: la svolta negli anni Sessanta

L’esplosione demografica delle popolazioni di cinghiale (Colline Metallifere, anni Sessanta) viene abitualmente addebitata ai cosiddetti ripopolamenti con cinghiali europei, di maggiori dimensioni e più prolifici del cinghiale maremmano, nonché a presunti incroci con i maiali. Non vengono invece tenute in debito conto le profonde trasformazioni ecologiche provocate dall’abbandono del bosco, avvenuto proprio in quegli anni. È infatti proprio in quel decennio che cessa l’allevamento semibrado della cinta senese; che si riduce drasticamente il taglio del bosco per la produzione della legna da ardere e del carbone di legna; che viene dismessa la raccolta sistematica delle castagne per la produzione della caratteristica farina dolce, la farina gialla che aveva rappresentato per secoli una componente essenziale nell’alimentazione delle popolazioni umane delle Colline Metallifere.

Queste trasformazioni spalancarono ai pochi e supposti minuscoli e poco prolifici cinghiali maremmani le porte di un’enorme nicchia ecologica fino ad allora prevalente appannaggio dei maiali bradi e degli uomini. Ciò vuol dire che i cinghiali maremmani ebbero a disposizione, senza concorrenza, enormi quantità di ghiande, castagne, rifugi e tranquillità; i quattro fattori ancora oggi ritenuti universalmente determinanti per il successo demografico di tutte le popolazioni di cinghiale di questo mondo.

I conflitti con il mondo agricolo

La presenza dei cinghiali comporta conflitti con il mondo agricolo a prescindere dalla specie di appartenenza e dalla consistenza. Nella riunione del 9 dicembre 1952 il comitato provinciale della caccia di Siena «prende in esame vari esposti presentati da agricoltori del Comune di Montalcino; costoro lamentano sensibili danni alle colture agrarie da parte dei cinghiali esistenti nella zona. E allo scopo di mitigare tali inconvenienti decide di consentire due cacciate da effettuarsi nel periodo che va dal 24 al 31 dicembre».

In questa situazione, rimanendo nell’ambito delle Colline Metallifere, è lecito ipotizzare che le esigenze di ripopolamenti con cinghiali alloctoni siano rimaste minime per tutti gli anni Cinquanta. Erano al massimo limitate solo a qualche riserva privata di caccia; data la crescente crisi dell’economia agricola conseguente all’abbandono delle terre da parte dei mezzadri, la caccia alla piccola selvaggina allevata in cattività e poi al cinghiale aveva assunto rilievo economico. Ne sono testimonianza l’impennata dei carnieri di fagiano realizzati dalla riserva di caccia Pentolina, situata nella parte senese delle Colline Metallifere, a partire proprio dai primi anni Sessanta. Il 9 gennaio 1956 arrivò una richiesta «per cacciare alcuni cinghiali»; fu approvata «alla condizione però che le battute fossero effettuate esclusivamente dai familiari del concessionario coadiuvati da guardiacaccia».

La storia del cinghiale maremmano: i primi ripopolamenti

In provincia di Siena la prima testimonianza di un ripopolamento di cinghiali si ha nel 1966, ma è relativa all’area del Chianti. Il 10 ottobre 1967 il comitato provinciale della caccia prende infatti in esame la richiesta dei cacciatori della sezione di Gaiole in Chianti; «dopo aver sottolineato i soddisfacenti risultati ottenuti dal lancio di tre cinghiali, effettuato lo scorso anno a cura del comitato provinciale della caccia, chiede l’assegnazione di altri capi di tal genere di selvaggina». Il comitato «decide di accogliere la richiesta mediante l’acquisto e il lancio di altri due cinghiali di sesso femminile». A partire dal 1966 le richieste e le relative autorizzazioni di immissioni di cinghiali si rinnovano. Il 15 febbraio 1968 è la sezione dei cacciatori di Scalvaia a richiedere l’assegnazione di un paio di cinghiali da destinare al ripopolamento.

L’inquinamento genetico del cinghiale maremmano è dunque un elemento ormai documentato a livello storico, morfologico e in anni recenti anche genetico. Tuttavia, diversamente da quanto ritenuto in precedenza, l’ibridazione del Sus scrofa majori con il Sus scrofa scrofa e con il maiale risulta abbastanza contenuta. Le attuali popolazioni di cinghiali maremmani conservano infatti ancora intatte alcune caratteristiche genetiche (aplotipi) riscontrate in esemplari museali di cinghiali sicuramente abbattuti prima che iniziasse la pratica dei ripopolamenti con i cinghiali europei.

È dunque vero, hanno abbiano indubbiamente risentito dell’afflusso di geni alloctoni e del rilascio di ibridi; ma è accertato che le popolazioni di cinghiale maremmano conservano ancora una quota importante della diversità genetica originaria. Ciò rende necessaria la loro conservazione, evitando ulteriori improvvidi ripopolamenti.

L’articolo completo sarà pubblicato su Caccia Magazine novembre 2021, in edicola dal 20 ottobre. Nel frattempo non perdere le ultime news sul mondo venatorio e i test di ottichearmi e munizioni sul portale web di Caccia Magazine.