Filiera della carne di selvaggina: autoconsumo, formazione, controllo faunistico

Filiera della carne di selvaggina
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Sono tre i temi imprescindibili per potenziare la filiera della carne di selvaggina.

Bisogna aver la forza di dire che la filiera della carne di selvaggina deve essere potenziata perché sì, non perché così si giustifica la caccia davanti a un’opinione pubblica diffidente O, detto meglio, «varrebbe la pena di valorizzare la carne di selvaggina anche se dietro non ci fosse un problema di gestione faunistica». A parlare così è Carlo Citterio, veterinario dell’Istituto zooprofilattico sperimentale delle Venezie, che rompe rispetto ai discorsi ricorrenti, che cioè la caccia abbia bisogno di una giustificazione; e la creazione di una filiera sicura è senz’altro una buona giustificazione. E invece è bene «valorizzare le carni di selvaggina anche se si caccia dove non c’è sovrappopolazione». Ed è altrettanto bene ricordarsi che «la sicurezza alimentare è un prerequisito, ma il requisito è la qualità: se come consumatore devo mangiare una cosa che è molto sicura ma fa schifo, non la mangio».

E dunque il nodo qualità-creazione della filiera della carne di selvaggina non può essere legato solo alla sicurezza alimentare. Da cui però è necessario partire; perché l’Italia è indietro, troppo indietro nella diffusione delle buone pratiche; perché troppi cacciatori sono ancora legati al «che vuoi che sia», e all’idea che semplificare la filiera agendo a caso sia un vantaggio per loro anziché un danno per tutti. Per regolamentare davvero la filiera c’è da lavorare su tre fronti: potenziare la formazione del cacciatore; istituzionalizzare una procedura standard per tutto ciò che è prelevato anche nelle operazioni di controllo; contenere l’autoconsumo in un perimetro definito, possibilmente autentico (autoconsuma la famiglia del cacciatore, nessun altro). Solo allora, data per scontata la sicurezza del prodotto, si può pensare a valorizzarlo. Ma c’è da camminare.

Filiera della carne di selvaggina: gli angoli da controllare

Servono buone pratiche, innanzitutto quando si caccia. «Il benessere della selvaggina influenza la qualità delle carni» spiega Simone Stella, che insegna ispezione degli alimenti d’origine animale all’Università di Milano. «Paura, agitazione, affaticamento, traumi, fame, sete, dolore, agonia possono abbassarne il livello». Tra ossidazione e scarsa acidificazione la braccata, e non è una novità, produce carni peggiori. Ecco perché Citterio suggerisce di lavorare sulle etichette: «Un consumatore dovrebbe sapere se un cinghiale è abbattuto in braccata o con altre tecniche». Stella non lo segue: «Vorrei vedere chi comprerebbe carne cacciata in braccata». Citterio: «Bisogna vedere quanto costa». Stella: «Ma per la selvaggina i prezzi non sono mai bassi». Così si rischierebbe di escludere dal mercato ufficiale tutto ciò che viene dalla braccata.

Forse bisogna trovare un altro sistema per rendere le carni appetibili. Per Stella si comincia evitando che siano scure, dure («È vero che dopo la cottura diventano meno consistenti, ma per impostare una filiera dobbiamo pensare all’acquisto e dunque alle carni crude») e secche («Per un bollito potrebbero anche funzionare», ma il bollito fa parte di una tradizione che non le valorizza). È vero peraltro che l’impatto dello stress su sapori e odori è difficilmente quantificabile: «C’è poca letteratura se non sulla renna; lo si rileva solo in casi estremi, solo su alcune specie e solo in periodi particolari».

Ma non dev’essere una giustificazione per distrarsi. Perché a livello microbiologico può succedere di tutto. «Le carni con ph più elevato sono un ambiente favorevole alla crescita microbica, evidente in casi di stress estremo». Che però non deve essere sopravvalutato. Lo stress conta infatti comunque meno rispetto a «precisione dello sparo, recupero rapido delle carcasse, igiene della macellazione». E al contesto ambientale.

Contaminazioni differenti

Perché sì, ok il piombo nelle munizioni, ma la contaminazione delle carni ha motivi ampi. Sia per il piombo, studi svolti in alcuni Paesi europei riportano valori di tossicità identici tra chi mangia carne di selvaggina cacciata con cartucce tradizionali e chi non la mangia, sia per altri agenti inquinanti. Perché il piombo può trovarsi nell’ambiente a prescindere dalle munizioni; e perché «talvolta, come in Germania, nelle carcasse di cinghiale – soprattutto nel fegato – si sono trovate alte concentrazioni di sostanze perfluoroalchiliche» spiega Elisabetta Bonerba, veterinaria dell’Università di Bari. «Le si utilizzano per conferire resistenza termica e meccanica al teflon e al packaging per alimenti; e sono note con la definizione di inquinanti perfetti, perché resistono a qualsiasi tipo di degradazione».

E non sono l’unico contaminante ambientale: si trovano in pessima compagnia insieme a ddt, mercurio – per quanto esclusi da tempo dal mercato, restano a lungo nell’ambiente – fitofarmaci e diossina. Uno studio polacco dimostra che il cinghiale è l’animale che l’assimila di più, sia nel muscolo sia nel tessuto adiposo sia nel fegato. Ora, è vero che secondo un recente studio AlpVet nella selvaggina non si trovano più contaminanti rispetto ad altre carni; ma vanno comunque monitorati.

Non c’è solo il piombo

Dato questo panorama, il rischio legato alle munizioni in piombo può essere gestito con una serie di misure che riguardano la caccia, la macellazione e le altre fasi della produzione. «Ma la gestione del rischio chimico richiede una valutazione attenta, che non può prescindere dalla conoscenza della contaminazione ambientale: non si può fare ricerca secondo l’approccio classico» raccolta dati e sintesi teorica «se non si sa quali siano i residui persistenti cui rivolgere l’attenzione. C’è dunque bisogno di uno sforzo delle autorità nazionali e regionali, che individuino i diversi rischi ambientali nelle diverse realtà senza creare inutili allarmismi». E soprattutto «gli enti di ricerca e i cacciatori devono essere coinvolti quando si definiscono le linee guida per la gestione del rischio».

L’uomo, l’ambiente e l’autoconsumo

D’altra parte esiste un contesto in cui creare una filiera controllata è teoricamente più facile. «Aumentiamo la quota destinata alle operazioni di controllo faunistico» rilancia Mario Chiari, Istituto zooprofilattico sperimentale della Lombardia e dell’Emilia. La sentenza della Corte costituzionale che a metà febbraio ha aperto all’impiego dei cacciatori può essere la spinta decisiva. Basta che non si giochi tutto su un’operazione d’élite, che non si limiti la filiera controllata solo a queste operazioni. «Un centro di lavorazione della selvaggina» nota Barbara Franzetti di Ispra «non si contrappone all’autoconsumo. Semmai, tra controlli sanitari, pulizia e taglio corretto delle carcasse, favorisce un autoconsumo di qualità. Il cacciatore che decide di portare il selvatico a un centro di lavorazione rappresenta comunque un vantaggio».

Se la filiera del controllo affianca la filiera della caccia, può rappresentarne un traino. Dai Parchi, sostiene Mauro Ferri (Sief), può infatti venir fuori una ricchezza nuova: «Invece di catturarli, incassettarli e trasportarli vivi verso i campi di addestramento cani, nei quali spesso non si possono escludere ipotesi di maltrattamento, o gli impianti di macellazione, bisognerebbe abbattere subito i cinghiali, eviscerarli immediatamente e avviare al più preso la catena del freddo in una cella di sosta locale». La raccomandazione è una sola, «che la gestione del cinghiale rispetti il suo benessere ed eviti d’imporre stress e maltrattamenti inutili». Ed è un fatto che se si parla di benessere animale «la caccia è molto più umana rispetto alla filiera degli allevamenti intensivi. In troppi confondono la crudeltà verso gli animali con le discussioni balistiche».

La filiera della carne di selvaggina: il consumo domestico privato

Si rischia però di scordarsi che al momento gran parte degli ungulati abbattuti – e la riflessione può serenamente estendersi alla piccola selvaggina – è destinata all’autoconsumo. «Sul quale la politica ha creato un equivoco» nota Paolo Capovilla, Ulss 1 Dolomiti. «Bisognerebbe chiamarlo consumo domestico privato». Perché altrimenti dietro quest’etichetta sguazza «una piccola industria al riparo da controlli sanitari e fiscali. È inutile far finta che questi prodotti non finiscano sul mercato». E a occhio le linee guida che la Conferenza Stato- Regioni ha approvato a inizio primavera non risolvono il problema.

È difficile pensare che la fornitura diretta di piccole quantità possa essere la soluzione, proprio perché le quantità sono così piccole che una volta raggiunto il limite è facile farsi trascinare nel falso autoconsumo. Allora forse prima di ogni intervento normativo sarebbe bene lavorare sulla mentalità dei cacciatori. «I corsi per cacciatore formato» commenta Roberto Viganò (AlpVet) «devono servire non solo a migliorare la filiera della carne, ma anche la qualità dell’autoconsumo». «L’educazione del cacciatore è la questione numero uno» si associa Giovanni Granitto del ministero della Salute: «Non solo per l’eviscerazione e l’azione di caccia», ma per smembrare il mercato nero della carne.

Imparare dagli altri

Guardare all’estero, anche a quello più insospettabile, non è vietato. L’Austria (131.000 cacciatori su 8.859.000 abitanti) ha avviato il proprio progetto di filiera della carne all’inizio degli anni Novanta; e nei corsi per la licenza i cacciatori sono addestrati a riconoscere lesioni patologiche o comportamenti anomali degli animali in vita.

Ed esiste una via di mezzo tra l’autoconsumo, per il quale è sufficiente l’ispezione del cacciatore, e l’immissione sul mercato via centro di lavorazione: l’istituto della cessione diretta al consumatore o ai rivenditori (locali, ma locali sta per austriaci) richiede una serie di controlli e un certificato di tracciabilità che però non creano particolari problemi. Ci sono infatti sette giorni (la scadenza vale anche per gli insaccati? questione ancora aperta) perché la carne arrivi al destinatario, dopo che una persona formata ha esaminato le carcasse e gli organi interni e il veterinario ha effettuato l’esame della trichinella. In Serbia si sta lavorando a una formazione obbligatoria per i cacciatori.

Informazione, formazione, istruzione

Ma per Roberto Viganò bisogna essere più ambiziosi. «Dobbiamo investire anche sui consumatori e sui piccoli laboratori che creano un valore aggiunto, anche economico, per il territorio». È una posizione che Agostino Macrì (Unione Consumatori) condivide: «Devono essere educati non solo i cacciatori, ma tutti i cittadini. Si sappia che se la caccia non segue le giuste procedure si mettono a rischio sia l’economia sia la salute collettiva». Ma allora perché dopo anni in cui si discute di sviluppo sostenibile, risorse rinnovabili e filiera della carne siamo ancora piantati qui?

«Mi sono fatto persuaso che viviamo in un Paese immerso nel sospetto» risponde Alessandro Bettosi, veterinario già dirigente del Corpo forestale. «Quando si hanno davanti pregiudizi radicati o superstizioni, combatterli con la ragione, la scienza e la tecnica è impossibile». Non serve andare lontano per verificarlo, basta accorgersi di come tanti commentano la campagna vaccinale. «La soluzione passa da tre vie: informazione, formazione, istruzione». Ed è la legge sulle aree protette a farci capire come costruire l’equilibrio: «Non proteggendo una sola delle componenti ecologiche, ma integrando l’uomo e l’ambiente».

Gli interventi sono stati raccolti durante il 2° Congresso nazionale sulla filiera
delle carni di selvaggina; si ringraziano Sief e Aivi per la collaborazione. L’articolo completo, con gli approfondimenti sui numeri della filiera della carne di selvaggina in Europa e sui contraccettivi orali per cinghiali, si trova su Caccia Magazine agosto 2021.