Cacciare a Palla n. 7 luglio 2019

Editoriale

Non il fine ma il metodo

L’ipertrofia legislativa italiana ha raggiunto un nuovo culmine in questi mesi con la presentazione di una proposta di legge – a firma dei senatori 5 Stelle Perilli e Maiorino – tesa a “introdurre norme più stringenti quanto alla tutela degli animali, di fatto, inattuata, sia in ragione della esiguità delle pene previste per i reati in danno degli animali, sia dell’inesistenza di qualsivoglia forma di controllo da parte delle forze dell’ordine sul fenomeno”. Con la proposta “si apportano modifiche al Codice penale, al Codice di procedura penale, al Codice civile, nonché ad alcune leggi speciali in materia di tutela degli animali. La ratio delle modifiche consta nel rafforzamento della tutela giuridica dell’animale sotto diversi profili”.

La proposta poggia le basi su un sentimento certamente diffuso – che fatico però ad associare alla pietas che viene richiamata dai firmatari – e sulla constatazione che la propensione a perpetrare delitti sugli animali possa rivelarsi premonitrice di un’attitudine che porterebbe a commettere altri delitti nei confronti della società. Come ho già scritto in passato, una tesi pericolosa che, alle estreme conseguenze, indurrebbe l’identificazione della figura del cacciatore con quella di un sadico criminale, nemico del bene comune.

Tra le novità più rilevanti partorite nella proposta segnalo l’articolo 4, in modifica della legge quadro, che proibisce la detenzione nel luogo di caccia di richiami acustici, il cui uso è già peraltro vietato. Significativo l’articolo 10, che introdurrebbe nel nostro ordinamento il divieto di importazione, cessione o utilizzo di alcune tipologie di collari e, salvo che il fatto costituisca reato, associa alla violazione del divieto una sanzione amministrativa. I dispositivi vietati sono i collari elettronici, quelli elettrici (che si presume essere quelli addestrativi), con le punte, a strozzo e a semistrozzo.

Rimarrebbero leciti i collari dotati unicamente di sistema di controllo satellitare GPS. L’articolo 12, invece, porterebbe all’abrogazione dell’articolo 842 del Codice civile. Quello, per intenderci, che riconosce che “il proprietario di un fondo non può impedire che vi si entri per l’esercizio della caccia, a meno che il fondo sia chiuso, nei modi stabiliti dalla legge sulla caccia o vi siano colture in atto suscettibili di danno”. A seguito dell’abrogazione, dunque, il proprietario del fondo potrebbe sempre impedire l’accesso a terzi.

Non sono un entusiasta dell’attuale ordinamento giuridico né della legge quadro che regolamentano la caccia ma, allo stato delle cose, è evidente che l’abrogazione dell’articolo 842 senza un contemporaneo intervento volto a ripensare la caccia nel suo complesso avrebbe un effetto dirompente. E potrebbe condurre all’impossibilità dell’esercizio dell’attività venatoria.

Su queste pagine abbiamo ospitato nel tempo autorevoli pareri di chi si è espresso a proposito del modello ideale di caccia del futuro. Pareri che hanno tenuto conto di tutte le esigenze in gioco – dalla biodiversità al diritto dell’attività venatoria, dalla necessità del controllo delle specie alla corretta gestione delle stesse in un contesto di sostenibilità ambientale – e si potrà continuare a discutere a lungo quale sistema gestionale sia il più appropriato alla situazione italiana. Se quello sociale italiano o quello privatistico del centro Europa, che quando è stato attuato nell’area mediterranea, penso al Portogallo, ha finito per scontentare tutti trasformando la caccia in un’attività per pochi.

Nei confronti del modello prossimo venturo non facciamo, insomma, una guerra di religione, consapevoli che probabilmente la soluzione sarà un compromesso, qualcosa egualmente distante dalle richieste più definite, che non scontenterà del tutto ma non sarà la soluzione per nessuno. In perfetto stile italiano. Ma smontare l’impianto della legge quadro pezzo per pezzo non può che trovarci contrari. Si tratta di un’ipotesi di lavoro insensata e controproducente. Che risponde forse a fini elettoralistici ma priva di prospettiva. Figlia di una nazione in campagna elettorale permanente.

Non è quindi lo schema che contestiamo. La caccia privatistica, se mutuata da opportuni pesi, ha un senso. Ma condanniamo e con forza il metodo che sembra prevalere in una parte della società e della politica. La caccia non è il problema ma parte della soluzione.

Matteo Brogi