Beccacce che Passione n. 2 marzo-aprile 2021

L’opinione

Coltivare i frutti del proprio orto, l’insegnamento di Alberto Chelini

Ho vent’anni. È il 1983, sono i primi giorni di gennaio. Entro dal portone d’ingresso del condominio in cui abito e guardo nella fila delle cassette postali per vedere se è arrivato qualcosa. È uno dei momenti più emozionanti della giornata per me che la ragazza neanche ce l’ho. In testa ho solo i cani e la caccia, poi ci sono la caccia e i cani, e poi i cani e la caccia. Poi viene il calcio. Il nuoto, il karate, la canoa li ho lasciati da un pezzo. Mi sarebbe piaciuto il pugilato magari, ma dove vai a farlo? In provincia non ci sono le palestre che trovi nelle grandi città e poi, a me, che mi frega? Dammi un cane, un fucile, un libro bello e sono a posto così. Mica tanto: anche una morosa non sarebbe male.

La scuola è un compito da assolvere, l’università è cominciata da poco e già ho capito che ho scelto la facoltà sbagliata: di studiare informatica non me ne frega niente. Mia madre vorrebbe che facessi ingegneria, figurarsi, cinque anni. Ho cercato qualcosa come scienze naturali, agraria, zoologia: tutta roba che non c’entra una solida mazza con l’allevamento dei cani e la caccia. E poi dopo che cosa fai quando hai finito? E veterinaria? Anche lì cinque anni, troppi. A me interessa l’etologia, Lorenz, Trumler: io voglio fare l’allevatore di cani da ferma. Ma non è un lavoro, dice mia madre. Devo trovare il coraggio di dire in casa che ho sbagliato facoltà e l’anno prossimo mi iscrivo a veterinaria, ma sì dai, intanto quest’estate ritorno a lavorare, verniciare i pali della luce a cottimo rende bene e mio padre lo zittisco così.

In casa di soldi non ne girano molti e già l’abbonamento a una rivista di caccia è un lusso. Intanto con curiosità sbircio la cassetta e vedo sporgere il plico incelofanato: c’è! È arrivata! Piglio la rivista sfilandola da sopra la fessura, schivo l’ascensore e infilo le scale mentre strappo la protezione trasparente.

Comincio a sfogliare e mi cedono le gambe. Chelini è morto. Come è morto? È morto. Un incidente di caccia il giorno di Natale. Il vuoto. Non può essere vero. E io che faccio ora? Cosa faccio? Non è vero che si piange chi muore: si piange se stessi. Io sto piangendo me stesso e non posso immaginare che non potrò più leggere le cose meravigliose che scriveva e che mi educavano a essere un cinofilo più cognito e un cacciatore più consapevole.

Non potrò più sognare di poterlo conoscere personalmente, incontrarlo magari a margine di una prova di lavoro, poterlo avvicinare e chiedergli altri suoi scritti a cui non ho avuto accesso, un aneddoto di caccia a fagiani lungo lo Sterza, i suoi pensieri in Spagna mentre cacciava le rojas nel coto de Budia, nella finca di Luis M. Dominguin, della sua brigata di caccia con Marchetti, Guidarini, Landini, Campos, Diaz. Tutti nomi che leggevo sul suo libro sul kurzhaar o su Le prove di lavoro dei cani da ferma che per me era una sorta di breviaro di giovane prete innamorato di un dio paganissimo che è il cane da ferma.

E le fotografie stupende? E le sue idee sulla gestione della caccia? Coltivare i frutti del proprio orto, questo scriveva. Mica una caccia di rapina, mica lo sterminio di animali al mercato dell’apertura, mica il mangiarsi il grano in erba. Questo scriveva.

Le prime prove di gestione della caccia, le autogestite, le abbiamo pensate e sviluppate sulle idee prodotte da lui. Sono naufragate: la nostra totale diseducazione di cacciatori indegni delle responsabilità che abbiamo ogni volta che imbracciamo il fucile, ci ha portati all’attuale deserto faunistico e ambientale. Al posto di aprire un tavolo di confronto e collaborazione con i protezionisti che, comunque la si voglia vedere e pensare, hanno in comune con noi tantissimi obiettivi, ci siamo chiusi in una difesa infantile e anacronistica di privilegi che non devono, né possono esistere.

Lui queste cose le aveva viste, capite, pesate e progettava per renderle realizzabili. Questo lui scriveva. La sua amicizia con Fulco Pratesi e tanti naturalisti, la difesa delle zone umide e il coinvolgimento delle associazioni venatorie in questi progetti da lui propugnati testimoniano la sua capacità di aver visto ciò che per gli altri neppure esisteva.

Ma si può essere così stupidi? Come si fa a morire a caccia il giorno di Natale? Forse non era così intelligente. Forse. Oppure no. Era geniale ma un pavido, uno senza le palle. No, questo no, lo so bene che chi ha paura non può essere intelligente, non si può indagare il mondo se hai paura di quello che si può scoprire, se non hai il coraggio di guardare quello che tutti gli altri rifiutano di vedere perché preconcetti o paradigmi ottusi ti legano al pensiero comune, alle certezze che tutti accettano anche quando fanno a cazzotti con le evidenze contrarie.

E poi chi si credeva di essere? A 44 anni aveva già fatto tutto, quando lo leggevi ne dimostrava venti di più, più che mio padre sembrava mio nonno. Aveva bruciato le tappe: quello che io intravedo oggi, a quasi sessant’anni, per lui era cristallino a trenta. Ed era cinquant’anni fa. Più lo leggevo e più scoprivo la sua capacità di analisi nell’osservare e di sintesi nel rendere con chiarezza la riflessione conseguente.

E quando lo rileggo, ancora oggi, provo un magone profondo e una tristezza che mi fa sentire, se pur vecchio, orfano della guida che avrei voluto avere accanto per sempre, senza mai emanciparmi da lui. E l’emozione e il mio dolore senza grazia mi impediscono di perdonarlo. O forse no.

© Lorenzo Trussardi

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