I cinghiali stanno colonizzando l’Europa

In ognuno dei 16 Paesi analizzati la crescita è evidente. Lo mette in mostra uno studio di Jurgen Tack, direttore scientifico dell’European landowners’ organization: i dati sul numero di cinghiali abbattuti ogni anno non mentono. Una volta effettuata la diagnosi, si può pensare alla terapia

Cinghiali
©Martin Prochazkacz

La riforestazione, certo. E, certo, anche le nuove tecniche agricole, con la conseguente maggior disponibilità di colture da predare, e la diminuzione del numero dei cacciatori. Ma il motivo principale dell’aumento demografico dei cinghiali in Europa negli ultimi 25 anni è rappresentato dai cambiamenti climatici. Ne è convinto Jurgen Tack, direttore scientifico dell’European landowners’ organization, che durante l’estate ha presentato i risultati delle proprie ricerche nel corso di un convegno presso la sede di Bruxelles del parlamento europeo. Inverni più miti facilitano la riproduzione, primavere più tiepide favoriscono la sopravvivenza giovanile. C’è più cibo a disposizione. E in un quarto di secolo il numero di cinghiali sul suolo europeo è esploso. Lo segnalano i dati sui cinghiali abbattuti annualmente in 16 Paesi (Austria, Belgio, Croazia, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Russia, Repubblica Ceca, Serbia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria) nel ventennio 1991-2011. Il numero di selvatici caduti ogni anno è quasi raddoppiato, da circa un milione a circa due milioni. Nello stesso periodo, si sono notevolmente ridotti i cacciatori attivi, da 9 a 7 milioni. La diminuzione del numero di cacciatori e una progressiva modifica delle tecniche di caccia hanno fatto sì che gli abbattimenti non siano riusciti a prevenire il folle incremento demografico del cinghiale. Ma è verosimile, emerge dallo studio di Tack, che senza la caccia la situazione sarebbe stata peggiore. Si è trattato a tutti gli effetti di una politica – preterintenzionale – di riduzione del danno.

In compenso negli ultimi venticinque anni si è assistito a un poderoso aumento degli studi e degli articoli scientifici sul cinghiale, da meno di dieci l’anno nei primi Novanta fino a sfiorare gli ottanta, record, nel 2016. E sul cinghiale sono fiorite pubblicazioni soprattutto di veterinaria, zoologia, gestione faunistica, parassitologia, microbiologia, infettivologia, genetica e di conseguenze sull’agricoltura. Poco si è parlato e scritto di tossicologia, etologia, medicina sperimentale e biologia riproduttiva. Ma soprattutto, nonostante che si tratti di una specie in forte crescita numerica e tra le più diffuse al mondo, al momento esistono meno dati su dimensioni e distribuzione della popolazione di cinghiale in Europa che di elefanti in Africa.

È per questo che diventa fondamentale creare un database complessivo e integrato, a livello europeo, della popolazione di cinghiale: la mancanza di dati robusti su scala europea può essere aggredita soltanto con una collaborazione forte tra mondo della scienza, cacciatori e ambientalisti. Ma, sostiene Tack, è solo il primo passo: oltre a sviluppare nuove strategie per ridurre il conflitto tra umano e cinghiale, è necessario rendere carne le potenzialità della caccia. Perché sia possibile, bisogna 1) calibrare un piano d’abbattimento sulle classi d’età giuste, a partire dai rossi; 2) utilizzare le tecniche di caccia più efficaci, anche se lo studio non le definisce nello specifico; 3) porre meno restrizioni sulla caccia collettiva; 4) estendere i periodi di caccia, che possono dispiegarsi anche su tutto l’anno solare. Il foraggiamento non è un tabù. Visto che tra giugno-luglio (colza) e ottobre novembre (ghiande, senape), passando per l’inizio dell’autunno ricco di mais, il cinghiale ha meno bisogno di cibo supplementare, ove consentito il periodo migliore per fornire ai selvatici una razione extra è compreso tra febbraio e maggio.

Il foraggiamento può essere utile per non far disperdere una popolazione che, alla ricerca di cibo, invada altre zone; ma c’è bisogno di regole e coordinamento, di evidenze scientifiche e di un controllo serio e costante.

Sin qui le prospettive. Ma, lavorando sui precedenti studi dei colleghi, Tack è riuscito a mettere insieme i dati sugli abbattimenti annui di 16 Paesi europei che, pur nelle loro differenze geografiche e gestionali, raccontano una tendenza chiara.

Due calcoli

In Italia, non è una novità, manca un database centrale: e, non è una novità, solo cinque regioni hanno fornito i dati completi. Secondo i calcoli di Tack, rappresentano il 73% dei cinghiali abbattuti in Italia. Ecco perché le stime portano il numero di selvatici intorno ai 300.000. Anzi, almeno a 300.000. Lo storico registra un andamento lineare, intorno ai 50.000 abbattimenti per anno, fino a metà degli anni Novanta. Poi d’un tratto la crescita: a ridosso del 2000 si supera quota 100.000. E non si scende più sotto. Anzi: i 150.000 abbattimenti sono superati nei primi 2000, il picco dei 200.000 è raggiunto alla fine del decennio e, dopo una lieve flessione, messo di nuovo nel mirino dopo il 2010.

Cinghiali
© Lightpoet

Crescita tendenzialmente lineare, senza scossoni, in Spagna. Si parte dai 50.000 abbattimenti l’anno all’inizio dei Novanta per raggiungere quota 100.000 già nella prima metà del decennio. Per i 150.000 bisogna attendere gli anni intorno al 2005; quota 200.000 viene sfondata a ridosso del 2010.

Analoga la progressione della Francia. Solo tre i picchi negativi, due volte a cavallo del 2000 e una a ridosso del 2010, all’interno di un crescendo costante. Al di là delle Alpi ci si attesta sui 100.000 abbattimenti per tutti gli anni Ottanta, fino al 1990. Poi si sale regolarmente, fino a toccare i 400.000 alle soglie del nuovo millennio. E poi si sale ancora: superati i 500.000 nei primi anni 2000, sfiorati i 600.000 poco prima del 2010. Lo studio riporta anche la progressione dei danni alle coltivazioni agricole: dai 2 milioni e mezzo di euro, ricalcolati dall’equivalente in franchi, del 1973, si sale ai 32 milioni e mezzo di euro nel 2008.

La Germania – i dati diventano accurati a partire dalla riunificazione – fa registrare un andamento altalenante ma improntato alla crescita, almeno nel lungo periodo. I tedeschi cacciavano in media 200.000 cinghiali ogni anno già prima del 1990 e 300.000 appena entrati negli ultimi dieci anni del secolo. Poi, dopo una serie di crolli che avevano ridotto di un terzo gli abbattimenti, si sale a 400.000 nel 2000 e a toccare quota 500.000 due volte tra il 2001 e il 2005. Dopo un altro crollo intorno a 250.000 a metà del decennio 2000-2009, basta poco per sfiorare i 700.000 a ridosso del 2010. Cambia decennio e si torna a 400.000, poi 600.000, poi di nuovo sotto i 400.000 in un saliscendi che ha ben poco della rigidità tedesca. Negli ultimi tempi si registra una costante tendenza a salire: i dati più recenti si stabilizzano sugli oltre 600.000 abbattimenti annui.

I numeri sono chiaramente inferiori per l’Austria, anche se la tendenza è la stessa, come del resto è la stessa in tutta Europa. Dopo un crollo sotto i 30.000, subito dopo il 2010 il numero di cinghiali abbattuti ogni anno è esploso fino a 50.000. La curva di crescita sale nettamente a metà dei Novanta; prima il dato era stabile sui 10.000 abbattimenti annui.

In Portogallo la (relativa) esplosione demografica è più recente. Si superano per la prima volta i 10.000 abbattimenti annui tra i 2002 e il 2003. Poi si toccano i 20.000 cinghiali abbattuti nel 2009 e si raggiunge il picco dei 25.000 appena scavallato il 2010; poi la curva torna a scendere e si stabilizza intorno ai 20.000.

È successo qualcosa di simile in Belgio, anche se le statistiche sono condizionate dall’assenza dei dati delle Fiandre, in cui il cinghiale sbuca solo nel 2006. Gli ultimi studi dedicati alla parte settentrionale del Belgio indicano peraltro una popolazione in rapida espansione. In Vallonia si sono abbattuti circa 10.000 cinghiali l’anno fino a metà degli anni 2000, quando in breve si arrivò a superare i 20.000.

Al momento si va verso i 30.000 abbattimenti annui. In Lussemburgo si registrano due picchi, uno a metà degli anni Novanta, quando gli abbattimenti sfiorarono quota 5.000, e uno alle soglie del 2010, quando toccarono i 7.000. Per il resto gli studi raccontano di circa 2.000 abbattimenti annui negli anni Ottanta, di 3.000 negli anni Novanta e tra i 4.000 e i 5.000 a partire dal 2000. In 33 anni, dal 1971 al 2004, i danni all’agricoltura sono aumentati di nove volte, da 100.000 a 900.000 euro.