A caccia con il porto d’armi scaduto: la sentenza

A caccia con il porto d’armi scaduto: carabina su appoggio, con ottica installata
© Balazs Bodo / shutterstock

Il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso di un cacciatore lucano che, andato a caccia con il porto d’armi scaduto da un mese, era incappato nel divieto disposto dall’articolo 39 del Tulps.

Anche se è scaduto soltanto un mese prima andare a caccia con il porto d’armi non più valido è un comportamento che porta dritto al divieto di detenzione, quello disposto dall’articolo 39 del Tulps. Lo ha chiarito la terza sezione del Consiglio di Stato (sentenza 804/2023) respingendo il ricorso di un cacciatore lucano che s’era opposto alla decisione del prefetto di Potenza e del Tar della Basilicata.

Non conta l’assoluzione disposta in sede penale per la particolare tenuità del fatto; l’amministrazione è infatti chiamata a una valutazione più stringente che oltre alla violazione della legge tenga presenti tutti gli eventuali sintomi d’inaffidabilità. Il divieto previsto dall’articolo 39 del Tulps è finalizzato non a sanzionare e reprimere reati, ma a prevenirli e a tutelare l’ordine pubblico; pertanto giustifica il divieto «anche il minimo elemento [utile] a incrinare ragionevolmente [l’idea] di un uso appropriato delle armi».

Il cacciatore è stato considerato inaffidabile con una valutazione «legittimamente ancorata» alla realtà e che giustifica la prognosi di un possibile abuso delle armi; non è rilevante il fatto che «il mancato rinnovo della licenza sarebbe frutto di una mera dimenticanza»: già di per sé andare a caccia senza titolo valido comporta un abuso dell’arma che può «ragionevolmente essere posto a fondamento» del divieto.

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