È necessario che Elly Schlein, la leader del principale partito d’opposizione, esponga la linea del Pd sulla riforma della legge sulla caccia.
È possibile che parlamentari e dirigenti sappiano cosa Elly Schlein pensa della riforma della legge sulla caccia, ma non lo sa l’opinione pubblica; ed è un problema, perché in un partito classico (e il Pd lo è, con liturgie e organi novecenteschi: assemblea, direzione, segreteria) la linea politica la decide il segretario (maschile sovraesteso: in questo caso la segretaria), che ha in carico anche un compito aggiuntivo: mediare tra le diverse anime del partito, riuscire a far convivere sensibilità diverse.
E invece, almeno all’apparenza, sulla caccia non si riscontra nessuna mediazione che riesca poi a produrre una linea condivisa: si resta appesi alle dichiarazioni dei singoli parlamentari, forti di ruoli più o meno ufficiali, alle quali se ne contrappongono altre di segno contrario.
A meno che a Elly Schlein della caccia non importi nulla (ma vorrebbe dire che non le importa neanche dell’agricoltura e dell’ambiente: improbabile), la ragione del silenzio si rintraccia nella fatica di tenere insieme quello che da un po’ di tempo è noto come il campo largo del centrosinistra, da Fratoianni a Renzi, il Pd pivotale e due compagni ingombranti: i Verdi di Bonelli, e il Movimento 5 Stelle.
Le difficoltà del campo largo
Sulla caccia Verdi e Movimento 5 Stelle hanno idee chiarissime: nel programma che presentarono per le elezioni politiche del 2022 ne proponevano il divieto su tutto il territorio nazionale; e le mosse parlamentari, d’opposizione forte, registrate nella prima metà della legislatura segnalano che le posizioni non si sono ammorbidite.
Al tentativo di non rompere il fronte e di non infastidire gli alleati potenziali s’aggiunge un’altra esigenza: in una sorta di riedizione dello slogan «nessun nemico a sinistra», a loro il Pd non vuole lasciare la rappresentanza esclusiva di alcuni settori del mondo progressista.
È qui l’inciampo: più che agli ambientalisti, il Pd dovrebbe pensare ai cacciatori; perché ci sono pochissimi cacciatori che votano il Movimento 5 Stelle; non c’è nessun cacciatore che vota i Verdi; ma in tanti, soprattutto nell’Italia centrale (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, ma anche in alcune frange del nord-ovest e in Campania), votano il Pd.
Se s’appiattisce sulle posizioni anticaccia il Partito democratico rischia di perdere i cacciatori senza conquistare neppure un voto tra gli ambientalisti e gli animalisti, che dalle posizioni radicali (e minoritarie: problema per loro, vantaggio per il mondo venatorio) di Verdi e Movimento 5 Stelle si sentono ben rappresentati.
E se s’appiattisce sulle posizioni anticaccia il Partito democratico si chiama fuori dalla discussione su una riforma che il centrodestra ha i numeri per approvare da solo, e che l’ostruzionismo delle opposizioni riuscirà al massimo a ritardare.
Mille, o diecimila, emendamenti saranno come nessun emendamento; se al contrario il Partito democratico identificherà alcuni punti critici della legge 157/92 non risolti dal ddl di maggioranza e proporrà alcune modifiche centrate, pur dall’opposizione potrà contribuire a migliorare la gestione della fauna e la disciplina della caccia in Italia – e, fattore che deve premergli, non alienarsi le simpatie dei cacciatori progressisti, o di centrosinistra.
Per partecipare alla riforma
Su alcuni passaggi caratterizzanti, come l’abolizione del divieto di lucro per le aziende faunistico-venatorie (è una tipica riforma di destra, nessuna sorpresa), le opposizioni non hanno chance di intervenire; ma su altro (per dirne due, c’è troppo poco sugli ungulati; e l’Acma è stata chiara sulle difficoltà per la caccia agli acquatici) c’è margine per migliorare sia la legge in vigore da trentatré anni, sia la proposta della maggioranza.
L’esito di una scelta diversa lo descrive bene Stefano Folli, che chiude il suo editoriale su Repubblica di oggi analizzando le dinamiche che hanno portato a mettere in discussione la ricandidatura di Eugenio Giani a presidente della Toscana: «Elly Schlein, in base a una strategia che è troppo presto per giudicare, ha assecondato fin dall’inizio la manovra di Conte, come al solito abile nel muoversi tra gli interstizi. La segretaria avrà un presidente di Regione più vicino a lei e al suo modo di fare politica, ma ancora una volta qualcuno dirà che al timone della barca del centrosinistra c’è in realtà il capo dei 5 Stelle, […] che nei prossimi mesi continuerà senza posa a spingere il Pd su posizioni radicali. Costui ne trarrà il maggior vantaggio, forse anche nel gioco dei sondaggi».
Non c’è bisogno di esplicitare l’analogia, né il riferimento del titolo di quest’articolo: già nel 1998 Nanni Moretti («D’Alema, di’ una cosa di sinistra; di’ una cosa anche non di sinistra: di civiltà; D’Alema, di’ una cosa, di’ qualcosa») s’era accorto che dopo la fine del Pci il problema principale dei leader della sinistra spesso sta nel silenzio.
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