Per una razionale gestione del cinghiale

gestione del cinghiale

Gestione del cinghiale e caccia in braccata: quando la caccia tradizionale al cinghiale è un prezioso strumento per gestire correttamente la specie.

Gestione del cinghiale sotto i riflettori. Già, si fa un gran parlare del cinghiale, ma il problema non è tanto l’animale in sé, una risorsa faunistica e venatoria di prim’ordine, quanto piuttosto la gestione, o più sovente la non gestione, che di questa specie viene fatta qua e là per l’Italia.

l primo punto da cui partire per dipanare la matassa è che il cinghiale, al di là del fatto che si adatta a vivere in qualsiasi ambiente purché sia dotato di cibo, acqua e tranquillità, è un animale del bosco, il suo habitat ideale. Il secondo punto è che la braccata al cinghiale è nata e si è sviluppata in Toscana, per la precisione nella vasta area boscosa delle Colline Metallifere. La braccata è nata come forma di caccia collettiva, cioè esercitata da gruppi di cacciatori organizzati: la squadra del borgo. E come tale si è successivamente diffusa nel resto dell’Italia. Bosco, cinghiale, braccata e squadra formano dunque un tutt’uno.

Non ha pertanto alcun senso criminalizzare, come oggi si tenta da più parti di fare, tanto il cinghiale quanto la braccata e le squadre. Ciascun elemento di questo trinomio è indissolubilmente legato al bosco, inteso come compagine di rilevanti dimensioni. Laddove il bosco rappresenta la componente vegetazionale prevalente, diciamo grosso modo l’80-90% del territorio, il cinghiale è legittimamente di casa. Così come legittima è la braccata, in quanto metodo di caccia efficace ed efficiente, soprattutto quando praticata in ambienti di fitta macchia mediterranea e di fondamentale importanza sono le squadre dei cacciatori che la esercitano.

Gestione del cinghiale: le aree vocate e la braccata

Le grandi estensioni di bosco sono un habitat idoneo per il cinghiale non solo perché in esse la specie trova condizioni ideali di vita, alimentazione, riproduzione e rifugio, ma anche per il motivo che al loro interno i cinghiali non arrecano, salvo casi del tutto eccezionali, significativi danni alle colture agricole. I pochi campi ancora presenti all’interno dei boschi, infatti, sono stati abbandonati da lungo tempo e semmai vengono messi a coltura dalle squadre stesse. Questo per di favorire l’alimentazione naturale dei cinghiali e dissuaderli dall’andare a fare danni nelle colture agricole vere e proprie. Resta, in talune situazioni, la presenza dei vigneti all’interno dei boschi, ma in questi casi è sufficiente realizzare delle robuste recinzioni dissuasive. Il problema è praticamente risolto.

Ne consegue che le zone densamente boscate sono da ritenersi a tutti gli effetti come “aree vocate” al cinghiale, all’interno delle quali è del tutto consono che caccino le squadre mediante la braccata. Partendo da questo presupposto tecnico, nel quadro di una razionale gestione del cinghiale, le squadre che operano all’interno di questo tipo di aree sono, oggettivamente, il più importante e affidabile alleato di una ottimale gestione del cinghiale. Questa affermazione può sembrare a prima vista una pura banalità, ma purtroppo non lo è. Infatti, risulta sovente del tutto ignorata da coloro che si scagliano contro il cinghiale facendo di tutta l’erba un fascio. Il prezzo politico pagato per questa autentica ingenuità è pesante: a questo attacco generalizzato si contrappone infatti, inevitabilmente, l’imponente fronte unito di tutte le squadre, senza eccezione.

Non tutte le squadre sono uguali

In realtà non tutte le squadre sono uguali. Ci sono alcune, invero una minoranza, che, diversamente da quelle che cacciano nelle aree autenticamente vocate, sfruttano l’espansione del cinghiale nelle aree coltivate e pretendono di cacciarlo senza alcuna considerazione per i danni che questa specie arreca alle colture agricole. In effetti, ci sono realtà territoriali nelle quali il bosco e i coltivi, in termini di estensione, tendono a equivalersi e l’uno si compenetra inestricabilmente negli altri. Sono le zone che possiamo definire come “aree problematiche”, nelle quali, pena il totale fallimento, niente può essere lasciato al caso. La guida in queste situazione non può che essere una: la prevenzione dei danni, ovvero la tutela del lavoro agricolo.

L’obiettivo del buon gestore della fauna selvatica in generale, e degli ungulati in particolare, deve essere quello di evitare, per quanto umanamente possibile, l’insorgere del danno agricolo. L’indennizzo invece deve rappresentare un ripiego, a cui ricorrere solo nel caso in cui non si sia riusciti a evitare il danno. In altre parole, il reddito degli agricoltori deve essere tutelato con la prevenzione dei danni, lasciando la pratica del risarcimento come ultima ratio.

Aree problematiche e prevenzione dei danni

Da tutto ciò ne consegue che le squadre che cacciano nelle “aree problematiche” devono essere obbligatoriamente coinvolte nel lavoro di prevenzione. La vocazione di un territorio nei confronti del cinghiale non è data solo dalle sue caratteristiche ambientali, ma anche dall’ammontare dei danni che questa specie può procurare alle colture agricole. Il mantenere i danni a un livello accettabile è di fondamentale importanza per definire una determinata area come vocata o meno al cinghiale. Certo, se i danni vanno alle stelle, o comunque superano la media, questo deve rappresentare un vero e proprio campanello d’allarme. E non è corretto infischiarsene, perché è il parametro più oggettivo capace di mettere in discussione la vocazionalità di quel territorio nei confronti del cinghiale.

Tra i provvedimenti tecnici da privilegiare per migliorare la gestione delle “aree problematiche”, due in particolare appaiono di fondamentale importanza: l’aumento dell’efficienza venatoria delle squadre e l’impiego di strumenti di difesa delle colture in atto come le recinzioni elettriche e gli impianti a ultrasuoni.

Aumentare l’efficienza venatoria delle squadre

Aumentare l’efficienza venatoria significa mettere le squadre in condizioni di realizzare il massimo del carniere durante il normale svolgimento della stagione venatoria. E di conseguenza ridurre, sempre per quanto possibile, la necessità degli interventi di abbattimento durante la restante parte dell’anno. Per aumentare l’efficienza venatoria dovrebbe essere incoraggiata, non certo imposta, una graduale fusione tra le squadre meno numerose, in modo tale da facilitare, laddove possibile, la formazione di unità meglio strutturate.

Uno dei problemi che pregiudica negativamente la gestione del cinghiale è, infatti, l’eccessiva frantumazione delle squadre, un fenomeno indotto e legato essenzialmente agli interessi egoistici dei conduttori dei cani. Un numero eccessivo di squadre ha un risvolto quanto mai negativo dal punto di vista venatorio: realizza tanto chiasso e poco arrosto. Nel senso che un eccessivo disturbo venatorio, quale quello praticato da un eccessivo numero di squadre, costringe i cinghiali durante la stagione venatoria a rimanere all’interno delle aree protette, salvo poi, al termine della caccia, spingersi, a causa dell’esaurimento delle risorse alimentari, all’interno delle zone coltivate. Realizzare una turnazione più vantaggiosa delle diverse battute di caccia consente invece, come dimostrato da tanti probanti esempi, di incrementare notevolmente i carnieri e quindi di ridurre la necessità di abbattimenti fuori stagione.

Inoltre, avere squadre più robuste consente di poter avere maggiori possibilità di realizzare adeguate strategie di prevenzione dei danni. La messa in atto di accorgimenti dissuasivi di livello comprensoriale, capaci cioè di difendere interi distretti agricoli, sebbene più dispendiosa in termini di impegno da parte dei cacciatori, si dimostra assai più efficiente ed economica rispetto ai tradizionali interventi basati sulla difesa parcellizzata di singoli appezzamenti.

La caccia nelle aree vocate alla piccola selvaggina

Infine, in ordine di esposizione ma non certo d’importanza, c’è il problema dello sconfinamento dei cinghiali all’interno di vaste aree prevalentemente coltivate e caratterizzate dalla presenza solo di piccoli boschetti, cespugliati e macchie. Queste sono le zone che possiamo propriamente definire come “aree vocate alla piccola selvaggina”, in quanto idonee, da sempre, per lepri, fagiani. In queste aree il cinghiale, come si dice, c’entra quanto il cavolo a merenda. Nel senso che il cinghiale, oltre a procurarvi ingenti danni agricoli, vi svolge anche un micidiale ruolo di predatore di nidi, piccoli, giovani e talvolta perfino di adulti di questa minuta selvaggina.

Nelle “aree vocate alla piccola selvaggina” il cinghiale non può essere gestito, la sua presenza, per quanto possibile, dovrebbe in ogni caso essere rimossa con la massima tempestività, nell’interesse tanto dell’agricoltura quanto della selvaggina nobile stanziale. Ma chi può avere interesse a una tempestiva rimozione dei cinghiali da queste zone? Non certo le squadre, né gli stessi cacciatori di selezione, tutti soggetti interessati, al massimo, a un assai limitato contenimento della specie, non certo alla sua eradicazione. Gli unici soggetti oggettivamente interessati a quest’opera di pulizia sono i cacciatori appassionati di piccola selvaggina, ma anche i cacciatori dediti alla caccia al cinghiale consapevoli della necessità di tutelare la piccola selvaggina stanziale e l’attività venatoria che essi stessi esercitano al di fuori dei periodi e dei giorni che dedicano all’ungulato.

In conclusione, una classificazione del territorio in tre distinte categorie: “aree vocate al cinghiale, “area problematiche” e “aree vocate alla piccola selvaggina”, con tutto ciò che ne consegue in termini di gestione differenziata, appare essere il primo indispensabile passo da intraprendere per una lungimirante e oculata conservazione del cinghiale.