Caccia Magazine n. 5 maggio 2021

Editoriale

Falsi amici e falsi nemici

In linguistica la definizione di “falsi amici” – faux amis in francese e false friends in inglese – indica termini, frasi, modi di dire che, anche se presentano una notevole somiglianza morfologica o fonetica e condividono le radici con termini di un’altra lingua, hanno significati divergenti. Nemici temibili quando si cerchi di imparare un idioma straniero. Falsi amici possono essere anche i comportamenti dell’uomo, messi in atto con uno scopo apparentemente nobile e invece destinati a produrre conseguenze negative proprio nel contesto che si voleva salvaguardare.

In ambito di conservazione, di finti amici della natura se ne contano molti; a partire da quei sedicenti ambientalisti che in ogni parte del globo provvedono alla liberazione di specie allevate a fini pur talvolta discutibili, consegnando a un destino ancor peggiore animali che non hanno gli strumenti per competere in natura. È il caso dei visoni e delle specie alloctone che, se riescono nell’adattamento, invadono il territorio con danni incalcolabili per l’habitat e la biodiversità.

Non si possono dimenticare gli animalisti che assaltano centri di ricerca per liberare cavie e altri animali impiegati in studi finalizzati alla diagnosi e alla cura di malattie gravissime. Per loro la vita di un animale vale più di quella umana; e ciò li qualifica.

Per andare sul concreto va menzionata anche la vicenda dei cinque orsi albanesi che l’Associazione italiana per la Wilderness periodicamente ci ricorda: sequestrati nei Balcani per le pessime condizioni in cui vivevano, sono stati ricollocati in un recinto all’interno dell’area faunistica dedicata all’orso marsicano nel Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. In caso di fuga – regolarmente verificatasi – questo gesto può trasformarsi in un evento potenzialmente dannosissimo per l’unicità genetica del nostro orso. Tre esempi, tra tanti, che ci indicano come l’uomo mediante le proprie azioni possa produrre guasti ambientali e minacce alla biodiversità anche se spinto da nobili intenzioni. L’ambientalismo è una cosa seria. Se viene lasciato agli animalisti – che guardano al benessere del singolo esemplare anziché mirare a quello della specie nel suo complesso – o a chi si lascia influenzare dallo spirito dei tempi è destinato a produrre storture e danni irrecuperabili.

Ma i falsi amici non sono solo questi e si sono insinuati nei nostri comportamenti in maniera apparentemente virtuosa. Prendiamo il mito del chilometro zero. Pensato per ridurre l’impatto ambientale che il trasporto di un prodotto, generalmente agricolo, comporta, è un ottimo strumento per valorizzare l’economia locale e le differenti zone di produzione delle eccellenze di cui l’Italia è ricchissima. Ma attenzione: in senso assoluto l’impatto ambientale prodotto dal trasporto è solamente uno dei fattori inquinanti del ciclo produttivo.

Se quindi il marchio ci serve per sostenere un’area di produzione altrimenti scordata nel flusso turistico ed economico è di sicuro un buono strumento di salvaguardia; ma se pensiamo che consumando a Km 0 ridurremo la nostra impronta biologica, ebbene, ci dobbiamo porre delle domande. Magari rivalutando le odiosissime produzioni industriali, in cui gli investimenti in innovazione e l’uso calibrato di acqua ed energia spesso consentono un uso più oculato delle risorse naturali.

Come non menzionare il recente innamoramento per il compostabile? Anche in questo caso il marketing ha potuto più di quanto non si creda per conferire a questi prodotti una valenza positiva che è loro propria ma solo a certe condizioni. I materiali compostabili sono definiti dalla normativa come quelli che in seguito alla loro degradazione, naturale o industriale, si trasformano in biomassa; in sostanza, una volta stabilizzato e igienizzato, semplice terriccio da utilizzare per i più vari scopi, tutti molto naturali ma che implicano di nuovo costi energetici di trasporto e trasformazione. La degradazione deve avvenire in condizioni ben precise e il materiale essere trattato correttamente. Altrimenti il processo non si attiva, con buona pace di coloro che gettano piatti e posate compostabili nell’indifferenziato o nella carta.

Molto meglio, allora, utilizzare materiali biodegradabili, che richiedono tempi più lunghi per lo smaltimento ma possono completare il proprio processo anche in discarica; oppure materiali riciclabili come lo stesso cotone – che in questo modo prolunga il proprio ciclo – o addirittura il poliestere, che da un punto di vista della produzione è più sostenibile dei tessuti convenzionali: si tinge con facilità, la produzione necessita di poca acqua, si lava a temperature basse e asciuga subito.

Insomma, la sostenibilità ambientale è materia complessa. La caccia, andando a toccare specificamente le risorse rinnovabili, non è affatto pregiudizievole di un loro uso responsabile. E la si può ben definire, stavolta, un falso nemico dell’ambiente.

Matteo Brogi