Caccia Magazine n. 3 marzo 2020

Editoriale

Diversità biologica

Biodiversità è un termine che si è affermato in questi ultimi anni e sta alla base della gestione corretta del territorio e dei selvatici che vi insistono. Venne coniato nel 1988 dall’entomologo americano Edward O. Wilson fondendo in un’unica parola il concetto di diversità biologica (biological diversity, in lingua inglese). Wilson, da molti considerato l’erede di Charles Darwin, ritiene che la perdita di biodiversità sia un’emergenza globale pari per importanza a quella dei mutamenti climatici.

Le specie conosciute sono approssimativamente un milione e novecentomila ma, stima il cattedratico di Harvard, quelle realmente esistenti nell’ordine della decina di milioni. La grande sfida dei nostri tempi è conservare questa immensa varietà naturale ma i dati non sono confortanti: si parla infatti dell’estinzione di 20-30 specie all’anno, soprattutto per cause legate alla competizione con le attività umane. Il problema di convivenza va quindi a intaccare quella ricchezza ambientale che contribuisce al benessere dell’uomo dal punto di vista psicologico, spirituale, economico, medico e in termini di sicurezza.

I suoi saggi La diversità della vita. Per una nuova etica ecologica e La creazione meritano la lettura. Così come merita sostegno la sua tesi per cui l’insegnamento delle scienze naturali vada spinto e rafforzato sul campo, dai primi gradi di istruzione, portando gli studenti a vedere, toccare, osservare, raccogliere. Solo così si può promuovere in maniera efficace la cura dell’ambiente e porre le basi perché le nuove generazioni siano realmente consapevoli del patrimonio naturale.

Ebbene, la conservazione della biodiversità è un principio che anima anche le politiche di gestione venatoria nelle realtà più evolute. Nella caccia di selezione, per esempio, già il porsi delle densità obiettivo delle specie soggette a prelievo è un’azione che mira al loro mantenimento e alla ricchezza del contesto naturale. Le tendenze moderne tentano inoltre di applicare questi principi gestionali anche alle specie migratorie – si pensi al monitoraggio internazionale dello status della beccaccia e di quanto si sta iniziando a fare per altre specie – anche se naturalmente in questo caso la questione è resa più complessa da legislazioni e sensibilità differenti nei paesi interessati dai flussi migratori.

In un contesto fortemente antropizzato come l’Italia, non gestire la popolazione faunistica equivarrebbe alla condanna di molte specie a vantaggio di quelle opportuniste e più facilmente adattabili. In questo quadro, dovrebbe essere evidente che il cacciatore consapevole e responsabile provvede al mantenimento dell’equilibrio ideale tra le specie, evitando che l’eccessiva fortuna di una inneschi la perdita di altre, e che il rispetto dei piani di abbattimento garantisce che i prelievi non siano eccessivi, evitando quindi una pressione eccessiva sulla specie obiettivo degli sforzi di caccia. Con buona pace di quanto pensano gli animalisti e i più estremisti tra gli ambientalisti da salotto.

Fa quindi riflettere una notizia recentemente apparsa su The Guardian, quotidiano britannico molto impegnato sul tema ambiente, secondo la quale un nutrito gruppo di conservazionisti scozzesi sta spingendo il locale governo a sostenere un incremento della caccia selettiva al cervo, ungulato molto diffuso nella nazione e già oggetto di prelievo. Privo di predatori naturali, in assenza di un piano faunistico nazionale (densità e regolamentazione delle attività di prelievo sono affidate ai proprietari dei fondi) il cervo ha raggiunto una popolazione di 400.000 esemplari che produce un impatto negativo sul delicato ecosistema ambientale.

I conservazionisti, consapevoli che il cervo è una risorsa economica che già distribuisce ricchezza ai proprietari terrieri (altrimenti non avrebbero forme alternative di guadagno), spingono perché vi sia una mutazione nella forma gestionale, che adesso privilegia l’accesso di pochi cacciatori selezionati, e benestanti, in caccia di un trofeo a favore di una gestione più allargata e aperta all’intervento dei locali. In uno schema di questo tipo, si metterebbero in opera azioni volte sì alla conservazione del territorio senza mettere in pericolo la specie, ma si darebbe pure un impulso fondamentale all’economia rurale, che nel Regno Unito come nel resto del mondo evoluto soffre.

La riduzione del 20% della popolazione di cervi – con il mantenimento di densità comunque elevate secondo i nostri standard – ridurrebbe le emissioni di gas serra, gli incidenti causati dalla selvaggina (12.000 quelli denunciati alle assicurazioni in media ogni anno) e spingerebbe l’industria della carne di selvaggina, un mercato che non ha ancora trovato piena dignità. Con benefici evidenti e meglio diffusi per la comunità nazionale e la stessa popolazione degli ungulati. Questo, come dimostra il caso scozzese, può essere compreso anche da quegli ambientalisti non accecati dall’ideologia.

Matteo Brogi