Caccia in braccata: la squadra Cinghialai del Pollino

A ridosso dell’area protetta più estesa d'Italia, milita una squadra la cui storia affonda nella tradizione ed è proiettata nel futuro

Cinghialai del Pollino

La squadra Cinghialai del Pollino nasce nel 1995 in seguito all’istituzione dell’omonimo Parco nazionale. La zona assegnata si estende per circa 400 ettari tra i comuni di Castrovillari, San Basile e Morano Calabro, e arriva fino a 600 metri d’altitudine.

E’ una squadra molto speciale. Non per le sue peculiarità, i suoi componenti o i suoi carnieri, ma per il delicato compito di traghettare una terra del sud, la Calabria, nella dimensione moderna della caccia al cinghiale, così come oggi viene intesa e vissuta in Italia.

Il desiato suide è presente da tempo immemore nell’entroterra del sud Italia, e da sempre è stato ovviamente cacciato. Le modalità e le risorse con cui questa caccia è stata da sempre praticata sono ben lungi dall’organizzazione e dalla tradizione delle squadre come siamo abituati a intenderle. Spesso in modalità singola o con due-tre amici, cani multitasking non specializzati, territori non assegnati, regolamenti assenti. Tutto ciò è stato correlato alla scarsa rappresentatività della specie cinghiale nel sud Italia e nello specifico in Calabria. Negli ultimi 20-30 anni si è d’un tratto assistito a un’esplosione demografica della specie Sus scrofa, con la sua comparsa anche in zone meno amene e più antropizzate. Nello stesso tempo la selvaggina stanziale e migratoria ha visto una sensibile deflessione numerica e così molti cacciatori si sono convertiti a questa forma di caccia. Nuove prede, nuove modalità di caccia hanno richiesto uno sforzo culturale e di mentalità non da poco.

Delle numerose squadre che di necessità sono sorte in questo scenario alcune hanno vinto la prova del tempo e delle evoluzioni.

Di una di esse vogliamo parlare col suo capocaccia, l’amico Carlo Filpo, che ci racconta le peculiarità della squadra Cinghialai del Pollino.

Condivisione a 360°

La squadra nasce nel 1995 in seguito all’istituzione del Parco nazionale del Pollino. I componenti iniziali erano già amici e cacciavamo spesso insieme; provenivano dalla caccia alla lepre, che praticavano perlopiù in montagna ben prima che il Parco stesso fosse istituito. La zona assegnata ai Cinghialai del Pollino si estende per circa 400 ettari tra i comuni di Castrovillari, San Basile e Morano Calabro e arriva fino a 600 metri d’altitudine. Dei 37 iscritti alla squadra, mediamente cacciano tra i 12 e i 18. Ci sono tre canai, e le loro mute di ausiliari sono composte per la maggior parte da segugi maremmani e ariegeois. Come conformazione, il territorio presenta una macchia bassa e fitta, a tratti impenetrabile; e, benché in aumento, il numero degli animali è comunque abbastanza limitato. Non è infrequente che una squadra abbatta meno di venti selvatici in una stagione. Con queste premesse s’intuisce quanto sia importante un’accurata tracciatura prima di mettere caccia. Altrettanto immutata è l’esigenza di cani “grandi tracciatori” in grado di seguire l’usta non proprio calda magari di un unico cinghiale che ha percorso diversi chilometri durante la notte. La presenza di cinghiali è costantemente monitorata dai componenti della squadra, molti dei quali sono anche selecontrollori del cinghiale all’interno del parco nazionale del Pollino, assegnati al medesimo settore. Questa è una particolarità della squadra, in cui si condivide la caccia a 360 gradi praticamente tutto l’anno, senza che ciò vada a impattare sugli intenti comuni.

Come eravamo

«Raccontando di tutto l’impegno profuso nell’organizzazione della squadra, mi viene in mente la caccia ai tempi di mio padre negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta», afferma Carlo Filpo, pensando a quei ragazzi privi di risorse, con pochi animali, ma con i cuori pieni di passione. «I cinghiali all’epoca c’erano, ma erano veramente pochi. Il capocaccia decideva il da farsi e tutti come soldati si attenevano alle regole. Ognuno aveva una posta propria e al solo cenno del capocaccia la andava a occupare. I più giovani, prima di guadagnarsi sul campo una posta tutta loro, facevano una sorta di gavetta. Smettere di essere spettatore ed entrare a far parte della squadra era un sogno che si avverava, ma non era per nulla facile. C’erano delle regole non scritte che andavano rispettate: c’era un rigore militare. Solitamente erano in pochi a caccia. Non esistevano telefoni e radio, per cui era fondamentale l’intesa. Con il passare degli anni l’organizzazione è cresciuta e l’istituzione di una grossa riserva portò a delle vere battute sociali alle quali prendevano parte fino a quaranta cacciatori. La riserva andava dalle Grotte della Sirena fino a Malvento. Ci cacciavano i cacciatori di Castrovillari e quelli di Morano Calabro, anche se non mancavano mai ospiti provenienti dai comuni limitrofi. Si cacciava dagli 800-900 metri in su, per cui era una caccia di montagna. La figura del canaio era un po’ diversa da quella che s’immagina oggi. Un po’ per il tipo di boschi, un po’ per l’estensione delle zone battute, un po’ per il ridotto numero di poste, chi scioglieva i cani occupava poi una posta: i cani se la dovevano sbrigare da soli. E non pensate che si sciogliessero le mute di oggi: si scioglievano uno, due, al massimo tre cani».

Regolamento e zonizzazione: la vera svolta

Al momento dell’istituzione della squadra e per diversi anni il carniere contava non più di una decina di animali a stagione.

Da allora ne sono cambiate di cose. La grande rivoluzione è avvenuta nel 2013 con l’introduzione del regolamento e con l’assegnazione delle zone alle varie squadre, grazie al titanico lavoro dell’indimenticato Saverio Bloise, allora presidente dell’Atc CS1, che si adoperò per assegnare a ciascuna delle 90 squadre esistenti la relativa zona. Per evitare che il regolamento fosse percepito come l’ennesimo insieme di regole definite a tavolino da chi magari neanche pratica una determinata forma di caccia, prima dell’adozione furono organizzati diversi incontri con le squadre coinvolte. Nonostante ciò, all’inizio si registrò tanta riluttanza da parte delle squadre. Perdere la libertà di spaziare su tutto il territorio dell’Atc fu vissuto come un grosso limite, ma i dubbi e le perplessità iniziali furono in breve tempo rimpiazzati dall’entusiasmo scaturito dal toccare con mano i numerosi vantaggi legati alla gestione di un territorio fisso. Maggiore possibilità di conoscere il territorio, migliore gestione della fauna presente, per esempio stabilendo i cinghiali da abbattere annualmente, o autodisciplinandosi nella pratica della caccia al cinghiale, opportunità di realizzare colture a perdere con il duplice scopo di favorire la specie e ridurre i danni alle colture, possibilità d’instaurare un rapporto di collaborazione con gli agricoltori, prevenzione e denunce di atti di bracconaggio, pulizia dei sentieri e altre opere di miglioramento ambientale, prevenzione incendi sono solo una parte dei numerosi vantaggi tratti. Inoltre, si è finalmente riusciti ad avere dei dati più concreti sugli abbattimenti. Tutto ciò significa possedere una base più solida per una migliore gestione faunistica. Infine, è stato creato un reale rapporto di collaborazione tra l’Atc e il parco così da rendere la gestione del cinghiale, e non solo, pienamente congiunta e d’intesa.

Uniti per crescere

«Per il resto» conclude Carlo Filpo «siamo una squadra come tante: cacciamo il sabato e la domenica perché molti di noi sono in piena attività lavorativa. Disponiamo le poste su assegnazione del capocaccia alternandole in base anche alla difficoltà e all’età dei postaioli. Sicuramente l’introduzione del regolamento ha introdotto dei limiti e delle pratiche all’epoca sconosciute. Chi, come me, ha avuto occasione di confrontarsi con realtà di lunga e gloriosa tradizione, come la Toscana, si augurava un cambiamento in tal senso. Più sicurezza, più rispetto dei ruoli, più capacità di collaborazione. Proprio guardando fuori dalla porta di casa nostra abbiamo capito e sperimentato il vantaggio di collaborare con le squadre limitrofe e oggi sono sempre più numerose le battute congiunte con la vicina squadra di Saracena. C’è ancora tanto da imparare e da cambiare, ma siamo sulla buona strada. Di sicuro cercheremo di non ripercorrere tutte le tappe evolutive di chi ci ha preceduti storicamente in altre zone d’Italia, ma cercheremo di usare quelle realtà come punto di partenza per progredire e far meglio. Siamo coscienti di avere tra le mani un tesoro, una terra bellissima con tanti selvatici alle pendici di uno dei Parchi più belli d’Europa».