Cacce e animali nella Divina Commedia

Cacce e animali nella Divina Commedia: statua di Dante Alighieri
© Davide Cerchiaro / shutterstock

Il settecentesimo anniversario della morte di Dante è l’occasione per analizzare cacce e animali nella Divina Commedia.

Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la storia medievale non può aver fatto a meno di rilevare tracce ed evidenti riferimenti a cacce e animali nella Divina Commedia. Allora l’esercizio della caccia – intendendosi quello rivolto soprattutto ai grandi mammiferi – era sostanzialmente riservato all’aristocrazia e all’alto clero; i ceti subordinati non potevano far altro che uccellare con mille trappole e marchingegni oppure bracconare a rischio di pesanti conseguenze.

Le cacce a cavallo al cinghiale e al cervo erano praticate anche nell’ottica di ammaestrare l’aristocrazia all’arte equestre e alle abilità militari. La massima espressione della nobiltà cinegetica era tuttavia costituita dalla falconeria. Nel secolo XIII, quello della nascita di Dante, questa tecnica aveva già trovato la sua più celebre consacrazione nel De arte venandi cum avibus, l’Arte di cacciare con gli uccelli, dell’imperatore Federico II di Svevia. Le immagini tratte dalla falconeria sono ben presenti nella Commedia e in forma assai esplicita, così come la braccata agli ungulati o alla lepre. Insomma, ci troviamo su di un terreno fertile di immagini di fauna selvatica e di cacce, fonte di metafore, di simbolismi, di similitudini; nell’ultimo decennio lo hanno esplorato in particolare due autori fonte primaria delle nostre riflessioni, Giorgio Zauli e Giuseppe Ledda.

Nella cultura medievale l’attenzione per la natura era caratterizzata soprattutto da un’interpretazione simbolica e allegorica. Ciò significa che gli animali non erano visti in quanto tali, ma quali rappresentazioni d’altro (del divino, del demoniaco, della salvezza o della perdizione) o di vizi o virtù umane (amore, saggezza, avarizia, cupidigia) dentro a un livello riconducibile a un universo oltremondano. Ciò che colpisce è però la descrizione vivace e dettagliata di animali e di situazioni che senza dubbio rinviano alla cinegetica.

Cacce e animali nella Divina Commedia: i segugi

Uno dei più begli esempi di questi rinvii lo si trova nel canto XIII dell’Inferno. Qui vengono puniti i violenti contro sé stessi, cioè i suicidi e i violenti contro le proprie cose, ossia gli scialacquatori. Questi ultimi vengono ininterrottamente inseguiti e lacerati da cagne bramose che li fanno a pezzi come costoro in vita fecero a pezzi le proprie cose.

Una prima terzina introduce l’episodio con una similitudine con la caccia al cinghiale con i cani. Dante e Virgilio, “similemente a colui che venire / sente ‘l porco e la caccia a la sua posta / ch’ode le bestie, e le frasche stormire”, sentono un gran rumore nella vegetazione. Poi appaiono due anime in fuga precipitosa. Il motivo ce lo dice una terzina poco più oltre. “Di retro a loro era la selva piena / di nere cagne bramose e correnti / come veltri ch’uscisser di catena”.

La descrizione rimanda immediatamente alle cacce con i segugi (le nere cagne) che, dopo lo scovo, inseguivano i selvatici, cinghiali, cervi o lepri, spingendoli in campo aperto; poi venivano sciolti i velocissimi levrieri (i veltri) che avevano il compito finale di raggiungere gli animali e di sopraffarli. Le anime degli scialacquatori sono quindi condannate per l’eternità infernale a recitare il ruolo del cinghiale o del cervo; scovati da segugi dopo un inseguimento lungo e sfinente, venivano infine assaliti e dilaniati dai levrieri, sciolti per l’epilogo finale.

I veltri e i falchi nella Divina Commedia

I cani, segugi o veltri, ricorrono diverse altre volte. Cane è il veltro evocato nel canto I dell’Inferno come il futuro uccisore della lupa che attenta al percorso di salvezza dell’uomo con la sua cupidigia e bramosa insaziabilità; cane nel corpo e nella voce è Cerbero, il mostruoso guardiano alle porte del luogo infernale ove vengono puniti i golosi.

Così come ricorrono sovente i falchi o i falconi, che rinviano con immediatezza il lettore all’arte della falconeria. Su queste specie e cacce le similitudini sono veramente straordinarie per bellezza e acume descrittivo, tali da non farci dubitare che Dante ne ebbe esperienza diretta.

La più suggestiva è quella delle due terzine del XVII canto dell’Inferno. “Come il falcon ch’è stato assai su l’ali / che senza veder logoro o uccello / fa dire al falconiere ‘oimè tu cali!’ / discende lasso, onde si mosse snello / per cento rote, e da lungi si pone / dal suo maestro, disdegnoso e fello”. Il contesto della similitudine è quello in cui il mostro volante Gerione, caricatosi sulle spalle Dante e la sua guida Virgilio, svogliatamente perché costretto li trasporta in volo dall’alto di un’irta scogliera fino ai suoi piedi, depositandoli in una posizione in basso dalla quale i due potranno proseguire il loro viaggio.

Insomma, Gerione si atteggia come il falcone. Dopo aver volteggiato a lungo e invano, non scorgendo prede, compie cento larghi giri e, senza essere stato attirato dal logoro, va infine stanco a posarsi a terra lontano dal falconiere, come sdegnoso e corrucciato per la caccia infruttuosa.

Da Ciampolo alle lodi celesti

Si trova poi un’altra similitudine di falconeria nel canto XXII dell’Inferno, allorché un dannato si lascia improvvisamente cadere nella pece bollente allo scopo di evitare di essere ghermito da un diavolo guardiano. E Dante, per dare l’idea della repentinità dell’azione, chiama nuovamente in causa il falcone da caccia: “Non altrimenti l’anitra di botto / quando il falcon s’appressa, giù s’attuffa / ed ei ritorna su, crucciato e rotto”. Che vale a dire che il dannato in questione – Ciampolo, un barattiere, che oggi definiremmo colpevole di concussione – si comporta come un’anatra che, appena scorge il falcone in picchiata e non potendogli sfuggire a volo, si lascia cadere di botto, ad ali chiuse sott’acqua o dentro la vegetazione palustre, con delusione del falco costretto a cabrare senza aver portato a termine l’attacco.

Altrettanto realistica è una terza similitudine, canto XIX del Paradiso. Dante la utilizza per descrivere i festosi movimenti di lode compiuti dall’aquila formata dagli spiriti beati nel cielo di Giove. Essa si muove “qual il falcon, ch’uscendo di cappello / move la testa e coll’ali si plaude / voglia mostrando e facendosi bello”. L’aquila si muove tanto festosamente quanto il falco che, non appena privato del cappuccio di cuoio da parte del falconiere, mostra la sua gioia e la voglia di cacciare agitando il capo e battendo le ali, pronto all’azione venatoria.

Paolo, Francesca e gli storni

Buona parte del canto V dell’Inferno, Paolo e Francesca, è caratterizzata dalla presenza di molti volatili, dalle colombe agli storni e alle gru. Quelli che il poeta chiama stornei e che noi diremmo stornelli sono evocati per similitudine con le anime dei lussuriosi, sbattute da un turbinoso vento maligno che non dà loro tregua e che le condanna a vagare senza posa per l’eternità. “E come li stornei ne portan l’ali / nel freddo tempo, a schiera larga e piena / così quel fiato li spiriti mali / di qua, di là, di giù, di su li mena”.

Le anime senza tregua in balìa del vento infernale sono come gli storni d’inverno, allorché in branchi grandi e compatti si spostano all’unisono, ora planando, ora impennandosi, ora lasciandosi cadere, allo scopo di disorientare eventuali predatori con la forza del gruppo. Ma non è tutto. Le anime preda del turbine senza fine ci fanno sentire le loro grida di dolore al pari delle grida delle gru: “e come i gru van cantando lor lai / facendo in aer di sé lunga riga”. È una caratteristica di questi uccelli, ben nota a chiunque abbia potuto osservarli anche solo una volta durante la migrazione.

Allineati in stormi, si mantengono continuamente in contatto reciproco anche con la voce, con quei lai, quei versi lamentosi che da qualche anno sono tornati a farsi sentire con frequenza anche nei nostri cieli in novembre durante il passo autunnale e poi, in marzo e aprile, con il ripasso primaverile.

Dante: una conoscenza ornitologica profonda

Le gru si ritrovano ancora nel Purgatorio, al canto XXVI, in un’altra similitudine che attesta la conoscenza ornitologica di Dante. Le due schiere dei lussuriosi prendono direzioni opposte, come fanno le gru a seconda del periodo dell’anno. “Poi come gru, ch’alle montagne Rife / volasser parte e parte inver’ l’arene / queste del gel, quelle del sol schife / l’una gente sen va, l’altra sen vene”. Le montagne Rife rappresentano un luogo genericamente collocato, per tradizione risalente all’epoca classica, all’estremità settentrionale o nord-orientale dell’Europa; l’arene simboleggiano le zone sabbiose e calde situate dalla parte opposta, cioè in Africa.

In tal modo ci viene offerta l’immagine di due schiere di anime che prendono contemporaneamente opposte direzioni; sono come gru che si dirigono in parte verso i territori africani per trascorrere l’inverno e in parte verso i territori settentrionali europei per nidificare La similitudine acquista significato solo nel quadro di una consapevolezza dei costumi migratori delle gru, emersa con evidenza.

Cacce e animali nella Divina Commedia: gusto di nobile

Trova spazio di citazione anche l’allodola, volatile di tradizionale interesse venatorio in area mediterranea. Oltre a rinvenirsi praticamente ovunque nelle campagne aperte e coltivate, all’epoca di Dante era con ogni probabilità oggetto di aucupio. La si trova nel canto XX del Paradiso, accostata a quell’aquila formata dai beati nel cielo di Giove che abbiamo già citato. “Quale allodetta che ‘n aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l’ultima dolcezza che la sazia”. Dopo aver enumerato a Dante i giusti principi, sopraffatta dalla luce del sole divino, l’aquila diventa infine come l’allodola che, dopo essersi librata sempre più in alto col suo trillo limpido e sonoro, all’improvviso tace, soddisfatta del suo canto e della luce che tutto pervade. È un’immagine vivida del comportamento delle allodole nelle mattinate autunnali terse e soleggiate, che qualunque appassionato ha avuto modo di verificare personalmente.

Il XXIII canto del Purgatorio ci offre pure un richiamo alla pratica dell’aucupio. “Mentre che li occhi per la fronda verde / ficcava ïo sì come far suole / chi dietro a li uccellin sua vita perde”. Con tali versi Dante vuole spiegare quanto fissamente stesse osservando dentro l’albero dal quale proviene una voce di penitente che gli parla allo scopo di individuarlo. Così si comporta nello stesso modo e con la medesima attenzione dell’uccellatore che perde il proprio tempo a insidiare gli uccelli scrutando nel verde. Questo cenno pare collocare Dante fra coloro che apprezzavano soprattutto le cacce con i cani e con i falchi, spettacolari e tipicamente aristocratiche, piuttosto che le assai più modeste occupazioni venatorie del popolo.

Un’opera multidisciplinare

Non finirebbe qui. Nella Commedia compaiono infatti tante altre specie di animali: la lonza (ai tempi di Dante il termine indicava un felino, presumibilmente la lince), il leone, la lupa, le colombe, serpenti e bisce, rane e ranocchi, il toro e il bue, le capre e le pecore, le api, il bevero (cioè il castoro), l’oca, l’orsa con gli orsatti (gli orsacchiotti), la lontra, la volpe, il vipistrello, la rondinella, il pellicano e altri ancora.

È un vero, grande, sorprendente zoo – o, per meglio dirla alla medievale, un bestiario – tratteggiato con inimitabile sapienza e inserito con perizia qua e là nell’opera. Dante attinge pienamente alle proprie competenze venatorie e ornitologiche. A tanti secoli di distanza la Commedia non cessa di sbalordirci anche per quella che oggi chiameremmo la sua multidisciplinarietà.

L’articolo completo è disponibile su Caccia Magazine settembre 2021, in edicola.