Cacciare a Palla n. 9 settembre 2019

Editoriale

M49 e il mitra iugoslavo

Se non è il lupo è l’orso. A luglio, le polemiche sempre più accese sulla gestione del lupo hanno vissuto un periodo di tregua, sopite dalle vicende dell’orso (problematico) M49 che ha turbato il dibattito politico di questa calda estate. Catturato su ordinanza del presidente della Provincia di Trento a Porte di Rendena e trasferito nel recinto del Casteller, un centro che dovrebbe essere all’avanguardia nella gestione dei plantigradi, in poche ore è riuscito a scappare. Guadagnandosi il soprannome di Papillon, in omaggio al personaggio dell’omonimo film del 1973 (ne esiste una versione del 2017) in cui Steve Mc Queen interpreta lo scrittore francese Henri Charrière, arrestato il 7 aprile del 1930 con l’accusa di omicidio e condannato all’ergastolo e ai lavori forzati presso il carcere della Guyana. L’uomo, detto appunto Papillon per una farfalla tatuata sul petto, si dichiarò sempre innocente e con una rocambolesca evasione riuscì a fuggire in Venezuela nel 1945. Come prevedibile la vicenda ha polarizzato la discussione, con la comunità locale in apprensione per la presenza sul territorio di un predatore aggressivo e l’opinione pubblica – comodamente seduta a distanza di sicurezza e iper garantista in nome di un astratto amore per la natura e i selvatici, che evidentemente non conosce – preoccupata per le sorti dell’orso. In questo quadro si è inserito il contrasto tra le autorità della Provincia autonoma e il ministro Sergio Costa, a capo del dicastero dell’Ambiente, che ha cercato di frenare con il proprio peso istituzionale l’azione del presidente della Provincia. Fino al pronunciamento della Corte costituzionale, che ha riconosciuto che i presidenti delle Province di Trento e Bolzano hanno pieno titolo “ad adottare provvedimenti” su cattura e abbattimento di orsi e lupi, così respingendo il ricorso del governo e dichiarando non fondata la questione di legittimità. La decisione, comunica la Corte, rientra “nelle competenze legislative statutariamente affidate alle due Province autonome” e pertanto si può ricorrere a cattura e abbattimento di orsi e lupi “quando non esista altra soluzione valida”, previo parere dell’Ispra e nel rispetto della Direttiva habitat.

Il ministro però non si è dato per vinto e, successivamente, ha intimato di non procedere all’abbattimento. Parlando evidentemente a titolo personale. E conducendo una battaglia che ha portato appunto al battesimo dell’orso – non più M49 ma ora Papillon – perché, a suo dire, è inaccettabile chiamare un orso con il nome di un “mitra iugoslavo”. Scavalcando addirittura la Lav, che per M49 aveva lanciato un sondaggio su Facebook proponendo nomi come Sergio, Libero o Martino. Nell’occasione il ministro Costa ha dimostrato – con il puntuale riferimento alla pistola mitragliatrice Zastava – una competenza in materia di armi che non mi sarei mai aspettato. Ma, d’altra parte, ha chiarito ancora una volta di svolgere il suo ruolo ispirato da un’ideologia che poco ha in comune con la gestione attiva dell’ambiente e della fauna selvatica. Approfitto quindi di questa occasione per ammettere un errore. Quando, in occasione dell’insediamento di questo governo, scrissi in un editoriale che sarebbe stato opportuno sospendere il giudizio sul ministro, di cui non si conoscevano al tempo posizioni ostili al nostro mondo, ho evidentemente operato un’apertura di credito immotivata. L’accanimento mediatico sulla vicenda solleva due osservazioni di base. La prima legata alla consistenza dell’orso in generale: se pure questo soggetto dovesse essere abbattuto (per motivi di incolumità pubblica, va ricordato), non andremmo a mettere in pericolo la specie né il programma di reintroduzione Life Ursus sulle nostre Alpi. Si tratterebbe di un incidente di percorso che non influirebbe in alcun modo sulla gestione della specie ma farebbe piuttosto sentire le istituzioni pronte ad ascoltare il disagio della popolazione. La seconda è relativa alla personalizzazione dell’animale.

Nomi propri utilizzati per distinguere esemplari di una stessa specie furono impiegati già da Jane Goodall e Dian Fossey, studiose a cui dobbiamo tante conoscenze su scimpanzé e gorilla. Fino ad allora, gli anni Sessanta, gli zoologi consideravano un errore “battezzare” gli animali che studiavano, perché “il pericolo dell’antropomorfismo diventa letale e il ricercatore finisce con l’attribuire all’animale sentimenti e attributi umani”. È una linea di pensiero che mi sento di abbracciare anche al di fuori del contesto dei primati. La sua sconfitta è stata portatrice di conseguenze nefaste, come dimostrano i titoli dei quotidiani nazionali. Uno, addirittura strillava che “M49 è una persona”, insistendo che lo sforzo di trovare un nome a M49 è motivato dal “semplice e illuminante motivo che gli animali sono persone. E le persone hanno un numero, anziché un nome, soltanto nelle prigioni di massima sicurezza e nei campi di concentramento”. Proseguendo, così da chiudere il cerchio, che “chi ha un nome è una persona, e le persone non si uccidono: si rispettano”. Confondendo ancora una volta i piani del discorso e attribuendo agli animali diritti e privilegi che all’uomo ormai non sono più garantiti.

Matteo Brogi