Cinghiale che Passione n. 6 ottobre-novembre 2019

Editoriale

Cooperare per il bene comune

L’estate che ci siamo lasciati alle spalle è stata calda, anzi torrida, sotto vari aspetti. Certamente sotto quello climatico, con un innalzamento delle temperature medie dalle cause molteplici; ma pure sotto quello politico. La crisi di governo di agosto ha prodotto equilibri che potrebbero essere contrastanti con la nostra passione e, a livello regionale, si sono reiterati scontri tra associazioni venatorie, cacciatori e politica locale. Al di là della sospensione di alcuni calendari venatori, una battaglia che ci troviamo a combattere ogni anno tra agosto e settembre e dimostra l’inefficacia dell’azione politica e amministrativa dei nostri rappresentanti nelle istituzioni, ha tenuto banco la solita “questione cinghiale”. Il tema si è arricchito di ulteriori capitoli mettendo tra loro contro – ancora una volta -i praticanti delle diverse forme di caccia. Gli appassionati delle cacce aggregative (braccata e girata) da una parte, i cacciatori di selezione dall’altra.

Esiste, a più livelli, la convinzione che la braccata sia l’unica forma efficace di prelievo sul cinghiale. Certo, è la più antica e – con altre poche eccezioni, come forse la sola caccia in botte agli anatidi – quella più rappresentativa della cultura venatoria nazionale.

Ed è certamente una tecnica che ha un forte valore sociale, visto che aggrega gruppi di persone che solo cooperando possono assolvere a tutti i gravosi compiti che uno sforzo di squadra richiede. Però, dati alla mano, il mondo della caccia al cinghiale non può ridursi alla braccata. Lo dimostrano gli studi di tanti – tra cui quelli di Giovanni Giuliani, un tecnico, nostro collaboratore che ne scrive su Cacciare a Palla – dai quali emerge che la selezione è una forma di caccia estremamente redditizia, efficace in termini di prelievo, a basso sforzo e poco impattante sull’ecosistema. Dagli Atc abruzzesi e da alcuni istituti faunistico-venatori privati emiliano-romagnoli, infatti, emerge che “in termini di sforzo assoluto di prelievo (media giornaliera dei selvatici abbattuti in rapporto ai cacciatori attivi su giornata di caccia) la selezione è doppiamente efficace rispetto alla braccata.

Addirittura, tale indice arriva a superare di sei volte quello della braccata se ai prelievi in caccia di selezione si sommano quelli realizzati in attività di controllo”. Questo, certo, è ascrivibile anche alla maggior estensione della stagione della selezione, ma ipotizzare un’estensione dello sforzo di caccia in braccata oltre i tre mesi previsti della legge è, oltre che complicato, oneroso in termini di impegno per le squadre e per gli ecosistemi. Fatti questi ragionamenti, e considerando che la selezione può essere praticata nel periodo di maggior impatto del cinghiale sulle colture, è difficile negarle razionalmente un ruolo che non può essere marginale nella gestione della specie. Nell’interesse comune – quindi ampliando il discorso a tutta la comunità nazionale, oltre ai cacciatori, cosa che non possiamo evitare se vogliamo davvero lavorare sull’accettazione della nostra passione – dovrebbe essere rafforzata la complementarietà delle diverse forme di caccia, che dovrebbero convivere, integrarsi e completarsi nello sforzo di raggiungere l’obiettivo. Il raggiungimento del quale è tra l’altro condizione proprio per l’accettazione del nostro ruolo sociale (quindi di pubblica utilità) di gestori dell’ambiente.

Nonostante che i potenziali benefici della cooperazione tra cacciatori dovrebbero essere evidenti, se sulla fiducia nell’altro, e quindi sulla cooperazione, prevale l’interesse egoistico, è inevitabile che si acuisca il conflitto tra i diversi attori e si attivi un processo che può solo portare all’impoverimento dei valori legati alla caccia. Quindi alla sua scomparsa. Non dobbiamo infatti dimenticare che il numero di praticanti è in continua diminuzione e non è prevedibile, a meno di una radicale inversione di tendenza di cui mancano le premesse, che il processo si arresti; per di più, lo spirito dei tempi, la cultura prevalente e gli stili di vita dominanti allontanano sempre più l’uomo dalla natura.

L’unità di intenti, quindi, in questo periodo è particolarmente importante. È fondamentale lavorare in termini che non siano divisivi (la delegittimazione fa danno), e sono indispensabili la cooperazione e la fiducia, gli uni negli altri. La caccia sta cambiando e noi, tutti insieme, dobbiamo raccogliere con lungimiranza la sfida che ci viene lanciata.

Matteo Brogi